GENOVA PER ME – di Elisabetta Arturi

Genova è il mare. Il mare di Prà, che da bambina guardavo in punta di piedi dalla finestra di una casa di cui ancora oggi ricordo i colori, gli odori, i rumori.

Quel mare che poi è stato inghiottito dal cemento, e con lui una parte di noi.

Genova è Villa Rossi. Dove in un pomeriggio qualunque dei miei sette anni, ho imparato le parole di “Ma se ghe pensu”, cantate da una zia amorevole, che porta al profumo di focaccia tutti i giorni a colazione.

Genova è anche il fornaio che un pezzetto di focaccia me lo dava di nascosto, ogni giorno. La sua bottega, che è ancora lì, è uno di quei luoghi in cui quando torno respiro l’amore fanciullesco.

Genova è Cornigliano. È quell’appartamento in cui ho mosso i miei primi passi, letteralmente. È quel momento che è rimasto nell’eternità di una delle poche foto mie che hanno resistito ai miei mille traslochi.

In quell’appartamento ho diviso la vita con due cugine che sono poi diventate sorelle. Mie.

Genova è mio zio, l’unico maschio tra un numero esagerato di sorelle. Franco, Francesco Arturi, uno degli amori più grandi della mia vita, cosa assolutamente reciproca. Lui che mi ha portato in giro di notte per le strade, per i vicoli più nascosti, lui che Genova ha aiutato a costruirla, che ne parlava come una madre parla del suo figlio più virtuoso.

Lui che quando è morto, mi ha regalato il primo, grande dolore della mia vita.

Ed ora mi fermo perché non respiro.

 

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