VOLO NON SA VOLARE – di Daniele Musto
Allora, mi sono preso una briga. Per la serie: era uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo, ho letto Fabio Volo, Un posto nel mondo.
Il libro è come me lo aspettavo, cioè brutto. Si presenta come una lunga sequela di frasi acchiappa-like da Baci Perugina furbette e caramellose (ed es. pg. 16 – “Non devi cercare la donna della tua vita, ma una vita per la tua donna”; pg. 167 – “La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa”; pg. 129 – “Finalmente sentivo di avere il coraggio di buttarmi per cadere verso l’alto”; pg. 212 – “Questa è la bellezza di una donna: quando è ragazza è un luogo, ma quando è donna è un mondo”; pg. 97 – “Eravamo le persone giuste nel momento sbagliato”, etc., etc…), filosofia spiccia fondamentalmente incentrata su due concetti ripetuti allo sfinimento:
1) Per essere felici occorre trovare l’altra metà della mela che non è un’altra persona, ma la parte sconosciuta di noi stessi.
2) I porcospini di Schopenhauer che per scaldarsi devono stare vicini, ma stando vicini si pungono etc., etc… psicologia da bar (ad es. pg. 127 – “Spesso l’odio è solamente l’ombra di qualcos’altro, l’odio appartiene ad attimi di impotenza”; pg. 92 – “La debolezza non è altro che disarmonia interiore”, etc., etc…).
Col tono altezzoso di chi vede intorno a sé solo un mondo di sfigati superficiali che pensano solo ai vestiti e alla moda, il protagonista del romanzo, Michele, considera le donne, il padre, la sorella, gli amici e tutti coloro che lo circondano, esseri inferiori che devono essere ‘salvati’ da lui e dalla sua unilaterale, definitiva, indiscutibile visione del mondo: “Le ho fatto vedere questo di sé stessa e mi ha ringraziato”; “L’avevo liberata da quello”; “La facevo sentire bella perché non mi fermavo al suo aspetto fisico“…
Si ha la costante, sgradevole sensazione di scarsa narrativa, di cose dette troppo, dette male, non mediate, a cavallo tra il racconto di un quotidiano banale e già sentito, il trattato di psicologia da quattro soldi, la filosofia da Smemoranda e lo scimmiottare saggi di sociologia e/o corsi motivazionali da corsa sui carboni ardenti e mani che si agitano nell’aria. In un continuo spingere a forza, trovare posto per aneddotiche già sentite e risentite (giacché il personaggio Volo è pubblico e obviously conosciuto), la cosa che più indispone, alla fine del libro, è davvero rendersi conto di come tutto questo sia stato escogitato e scritto per magnificare in modo semplicistico e ridicolo il protagonista del romanzo, alter ego dell’autore, che ce l’ha fatta, a discapito di quanti ancora vivono una vita mediocre alla ricerca di un sogno che mai si avvererà, di chi vive una vita insoddisfacente, di chi si alza tutte le mattine alla stessa ora per andare a timbrare il cartellino solo perché non ha/non avrebbe mai avuto il coraggio di “andare via”.
Bah, posto che non credo che la vita la si possa risolvere prendendo il primo aereo per Capoverde, posto che magari non tutti viviamo questo sentimento di rivalsa o di vita che deve assolutamente essere risolta, posto che, nel caso, non credo la possa risolvere Fabio Volo con un libro, questa non è buona narrativa; dice troppo, dice male, non racconta, non illumina, non ti mostra la testa di chi scrive, la testa, le emozioni, l’intelligenza, i collegamenti tra le cose, quella luce, quel punto di incontro tra il lettore che legge e lo scrittore che scrive. Quella bella narrativa che non ha soluzioni, non ha risposte, rifugge tesi, antitesi e moralismi d’accatto; che racconta una storia nel modo più sincero e più onesto che le riesce fino a che non senti tutto così vicino da poterlo toccare, ecco, tutto questo, qui, non c’è, non c’è mai. C’è la storia, non il racconto. C’è un maestro di vita presuntuoso e arrogante, fintamente modesto, che ci scrive la storia parafrasata della sua esperienza di grande successo economico e di pubblico da stravaccato sul divano di casa sua con la birra in una mano e una tromba nell’altra. Qui lo scrittore scappa sempre fuori dal personaggio, anzi dai personaggi, giacché il punto di vista è pure unico per tutti, (cioè non proprio unico, ma tutti sono in prospettiva tesi/antitesi per dimostrare la validità del punto di vista dello scrittore). Tutto qui è funzionale a questo.
Quindi? È buona narrativa questa? Per me no, assolutamente no. Provo a dire meglio, non è che il suo punto di vista non sia chiaro o non arrivi, per carità, ma il punto è:
1) Che c’è un punto di vista, (perché ci deve essere? Chi lo dice? È questo che fanno gli scrittori? Qual è il punto di vista di Hemingway in Un posto pulito, illuminato bene? Per dire…).
2) Che quel suo punto di vista arriva male, non mediato dal racconto, da quello che succede e che fa capire i personaggi da dentro, che li racconta senza dire. Quel momento in cui entri in un libro e ti lasci andare, ti fidi di quello che ti sta raccontando la storia, e ci sei dentro, e vedi i personaggi, e ti fai un’idea precisa o vaga, non è questo il punto, a volte contraddittoria, contrastata, di quello che è successo, ma senza dettami, senza forzature (questo è il punto!), senza io, io, io. Qui è tutto io, io, io, e non succede niente. Il punto è che lo scrittore, quello vero, racconta una storia spesso avendone egli stesso una visione di insieme poco chiara, preferibilmente senza punti di vista importanti, o lasciandoli molto dietro, o facendoli pervenire al lettore in modo non esclusivo, non assoluto, non così scontornato, con la testa sempre aperta a interpretazioni, a soluzioni tutte parimenti dignitose. Il punto è che la buona letteratura è umile, fragile, soffre la propria intelligenza, soffre del costante mettersi in discussione, ha dentro il tarlo del dubbio. E lo scrittore è umilmente a servizio del racconto. Volo non è uno scrittore, non è un narratore di storie. Volo è: siccome ho avuto successo, ti spiego la vita. E per farlo uso una storia. Che poi, fondamentalmente, è la mia storia. Ok, non dico che non hai la credibilità per poterlo fare o per provarci, dico solo che questa cosa non è buona narrativa, a me non piace per niente.
Bene. Tra l’altro questo libro l’avevo già letto, ma me ne sono ricordato solo a poche pagine dalla fine, per dirti quanto mi avesse impressionato ai tempi. Cioè, tutta ‘sta fatica per leggere un libro brutto, e poi lo avevo già letto. Quindi: libro brutto di autore che non mi piace, letto due volte. Molto bene!
Vabbèh, siccome si è fatta una certa, vi lascerei con quest’ultima, fondamentalmente, citazione. Pronti? Occhio che vi cambia la vita… Atmosfera, luce soffusa, vai col Gershwin di sottofondo: Pg. 216 – “Amo le labbra, le amo per il loro colore, per la loro forma e la loro morbidezza. Le amo perché sono costrette a non toccarsi se vogliono dire ‘ti odio’ e obbligate a unirsi se vogliono dire ‘ti amo’.
Allargo le braccia signori – ubi maior – e vabbèh, vabbèh, vabbèh…
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