UNO SPUTO NELL’OMBRA – di Danilo Cannizzaro
Oggi ho preso i voti.
Sono entrata in convento. Come desideravo, in effetti.
Il luogo benedetto che mi ha accolto è consegnato alla memoria della posterità anche per alcune vicende storiche.
Così è come io stessa le ho apprese:
Le speciali tenebre notturne precipitate qualche ora dopo il crepuscolo del 15 marzo 1712 che silenziarono gli accorati singulti di Maria Maddalena Aldobranda Indolorata, in fuga dalle paterne mura domestiche – tenacemente sorvegliate dall’inesausto sguardo lampeggiante d’arcigna ottusità del padre (appunto) Frollocco dei conti di Lampugnano e Cucurmina Spanta, padrone e donno di grami fondi, orgogliosamente improduttivi – quantunque gravide d’oscuri presagi e di cupe premonizioni non meno, si dissolsero in un Fiat, precisamente col risolutivo taglio dei capelli, imposto ed attuato nell’alba seguente da Fibonaccio Turbinato da Rescaldina, uomo probo e giusto, proclamavano gli accoliti; individuo sinceramente e rischiosamente ingrifato, sottacevano gli intimi.
Legittimo dubitare se incalzato da devotissime intenzioni, il sant’uomo, prendendosi il soffice pelo, diè comunque in cambio un velo alla sventurella, equipollente entro i limiti della considerazione che il primo era soavemente aromatizzato da virginee fragranze, il secondo era irrimediabilmente monastico, ma in compenso annunciatore di sconfortanti garanzie di successivi (abbondanti) soffrimenti, (cospicui) rammarichi, (laute) penitenze.
Da recente peccatrice anziché di peccati esplicitati, quanto, piuttosto, nel farsi accorgere della volontà di commetter peccati, intollerabili nella magione avita istessa, come quello di ricever da mani maschili trattamenti curativi – nientemeno che da un servo staffiere! – intorno alla sua delicata caviglia offesa da una storta, in tal mutata condizione, nulla, pertanto, residuava alla tristanzuola, nell’accettare con scarsissima convinzione la Regola del nascente Ordine delle Suore Crocifissone Rasate al Santo Bulbo, che la istruisse altrimenti sulle regole utili alla preparazione di un ottimo liquore nocino. Eppure ella, nell’apprendimento autonomo s’applicò a tal punto, ad espiazione virtuosa dei suoi peccati – ahilei inattuati – da produrne un elisire, che in breve tempo, e per la regione tutta, riuscì gradito et sommamente rinomato.
La squisita tradizione ancor oggi perdura, invero, presso l’Eletto Monastero delle moderne Crocifissone Rasate, consacrato teatro della vicenda che adesso, il lettore ghiotto, apprenderà.
***
– «Sia lodato Gesù Cristo.» – rimasticò distrattamente al di qua dei mustacchi floridi Suor Giuseppa (perennemente deconcentrata, a dispetto del suo costumato ufficio di maestra delle novizie, da un fastidioso, pervicace prurito alle orecchie irsutissime, che non riuscivano a placare neanche i più generosi tentativi di escavazione laboriosa del cerume – ahi, quanto! condensato – per mezzo d’un unghione appositamente allevato sul mignolo e abbrustolito dall’uso frequente) espettorando nebulizzate scorie catarrali in direzione della Priora.
– «Oggi e sempre sia lodato.» – fu la risacca della Madre Badessa, avvezza alla tripartita simultanea reazione, che comprendeva anche il trasalimento estatico da ribrezzo e la protezione per mezzo d’un automatizzato sbarramento reagito mercé lo scapolare, foggiato all’uopo.
***
Nella voce della suora Superiora, che con l’appellativo di Suor Recisa (tel qu’il apparaît le Nom de Plume nel valor d’imperativo, ma, ai reclami del secolo: Enrica Venera Catenassunta Genuflessa *) a man salda, rigorosa dirigeva l’ondivaghe prore del bastimento religioso, era sempre possibile, per un orecchio meno occluso di quello di Suor Giuseppa, indovinare la costernazione, da presso scortata da quella accanita frustrazione ch’è propria dell’uomo – ma, dovrà intendersi, prodigalmente: la donna, in questo caso – perpetuamente sdegnato da ogni cosa fluttuante in questo mondo, privo peraltro (l’uomo o il mondo? in dùbiis àbstine..!) di certificate fideiussioni nell’altro.
Per la qual cosa, a titolo di coordinato risarcimento a tanto sdegno, nell’ipotizzabile probabilità affatto teorica di dover vedere – magari fra cent’anni (perché prima?) – i propri giorni dilatarsi in un buio più ampio, severo, incorruttibile e, sopra ogni cosa – chissà – eterno, la venerabile megera coltivava, in luogo della valutazione di trovarsi almeno saltuariamente all’interno del formicolio della mano addormentata di Dio, l’ostinata supponenza invece di dover fornir lei, a Costui, suggerimenti flemmatici intorno alla questione dell’opportuno rifacimento del Creato, a partire dalla produzione del miglior liquore ottenibile in natura, il Nocino Perfetto, quello estremo, pozione di cui ella era ingorda sopra ogni dire.
Instancabile dunque incalzava le sottoposte, acché mai arrestassero il braccio fabbricatore del prelibato nettare meta-alcolico. Costoro, di fabbricarlo, in gran letizia lo fabbricavano eccome, cionondimeno ristavano perlopiù reticenti, ed omertose alquanto, sulle cause della sparizione di vasta parte della bevanda prodigiosa: conseguenza ineliminabile, a lor dire, dei processi di distillazione; risultato di delittuosi ingozzamenti, nel convincimento della badessa.
La degna donna, appena possibile, non vista, per parte sua si affrettava a isolarsi nella propria cella – parcamente arredata da un lettino, un armadio, una sedia, un crocifisso, un piccolo tabernacolo e un pupazzo Ercolino semprimpiedi (dopo quattro poderosi sganassoni al quale, enormemente s’imbufaliva, perché il gonfiabile non reagiva) – ad ingollarne sorsi grandi, tutta intimamente squassata dai brividi di piacere, al modo d’un cucciolo che, insaziabile, niveo latte lappi da scodelletta.
Ma non v’è motivo di trascurare il fatto – da che scegliemmo la missione di riferire il vero e poi più nulla – che il medesimo liquore, eccellente per composizione ed amalgama, era difatti, anche per le altre reverende consorelle, quel che il cavallo morto rappresenta quando fa dimenar pazzamente la coda al branco di iene – carogne aggiuntive – affrettate a squartarlo, contendendone le carni ai corvi egualmente voraci.
***
A cagion di tal attestato gradimento – universale pressoché – Suor Recisa gelosamente nascondeva, con un’accuratezza che aveva del commovente, una pregiatissima fiaschetta in cristallo di Boemia di finissimo taglio, decorata da soggetti floreali smaltati in egual fattura, entro la quale confluiva la parte scelta della migliore raffinazione del Nocino d’annata.
Custodendo con sollecitudine parimenti struggente, altresì, nei paraggi di nascondigli corporei – che qui non verranno designati ad ampie lettere per versare appropriato dazio, seppur minimo, alla santità del pio offizio di cui era unta la Priora – la chiave dello stipo da lei ritenuto segretissimo et intimissimo, per questa via stimava le fosse accordata porzion sufficiente, se non altro, del lusso di dormir sonni tranquilli.
E numerosi ne poltrì, in effetti, di abbandoni giocondi e lieti, senza dubbio favoriti dalla ginnastica rinfrancante che imponeva al gomito gagliardo.
Ah, beh.
A che biasimarla?
Nel fior fior di senescenza, uno o più colpetti, la sua sveglia certamente avea perduto nel computo faticoso delle ore sfuggenti; ma adesso, una ad una le riconosceva, chiamandole per nome, scandendone l’appello; con la stessa chiarezza, la stessa rabbiosa irruenza con cui il dolor si presenta e si conosce, quando questi s’affeziona e poi abita quaggiù.
Che traeva, in previsione, se non lento, rio declino, da concludersi in follia popolata di silenzi, dove manco per isbaglio zompettassero bambini?
Camminare?
Lavorare?
Da sonnambula vagare, priva ormai d’ogni vigore (o soltanto di una stilla) destinato a quella cosa che la gente non impara, non assorbe e non insegna, tuttavia designa sempre con quel nome tanto bello che poi è: felicità?
***
Un luminoso mattino, l’ora assegnata alla meditazione dopo quella antelucana di preghiera, fu sconvolta da un terremoto privato, che ebbe per epicentro esattamente il loculo della Madre – Recisa, sì, ma – Superiora:
– «Aaaaargh!»
Che fu? Aprir lo stipo, vedere la bottiglia, assodare che il livello del liquido magico è senza dubbio inferiore a quello garante della parasonnia[1] goduta la notte appena trascorsa, costringere ad un pesantissimo imbarazzo la compagnia degli angeli e dei santi poco prima celebrati in orazione a motivo di bestemmie che non esprimono alcun tratto d’umano sembiante, fu un attimo.
I rantoli, i fieli, le bave graveolenti secrete occuparono i minuti successivi, vale a dire tutti quelli ricompresi nell’ora precedente la messa antimeridiana delle otto.
***
Alle otto e trenta, Recisa – sì nell’appellativo, ma più a fondo fra le vie di accesso al distretto endocardico – si aggirava come Il fantasma del Louvre – tra i banchi frugali del refettorio (dove, tra gli eccessi di furore dei rapidi azzannamenti, la mandria di Crocifissone annichiliva la colazione) lugubre intorno a sé guatando – “…come quei che con lena affannata, Uscito fuor del pelago a la riva, Si volge a l’acqua perigliosa e guata…” – per trasmettere all’autrice abietta del misfatto che di lì a un soffio era per abbattersi su di lei rovinosa punizione e grandissima maledizione vieppiù.
Trasmigrata in pianta stabile dai segreti passaggi del Louvre ai non meno foschi anditi del chiostro, Catenassunta/Belfagor disertò a piè pari i canonici momenti di preghiera, tal defezione all’opposto orientando nella direzione di pratiche malvagie, brevettate da religioni altre, in particolar modo le più calamitose fra quelle connotate da caratteri sincretici e fortemente esoterici da cui germogliano terribilissimi riti di magia nera e trafitte bambole Voodoo.
Al pranzo di mezzodì il pasto della Reverendissima era il medesimo pane e veleno consumato da Felice Sciosciammocca (stando al rendiconto narrato in Miseria e nobiltà) e il testo di categoria spirituale prescelto per la lettura del giorno da parte della monaca delegata, suonava al suo orecchio, incidentalmente forse irsuto meno di quello della placida Giuseppa, ma per vero parecchio appuntito, politamente congruo alla più efficace omelia concepita nella Chiesa di Satana.
Dopoché, il momento di ricreazione che avrebbe dovuto, more solito, far seguito ebbe anzi la palpabile peculiarità dell’ispezione operata da un aguzzino torvo in un campo di prigionia che trasmetta i segnali, tipici altrettanto, di mitezza e bonarietà appetto allo scricchiolio dei denti dei sorvegliati terrorizzati. Sospiri e mormoramenti delle – in species facti – terrorizzate, un coro erano, unisono: impazienti amanti non saprebbero procurare cigolii più sofferti ad un vecchio materasso a molle.
Poi, in liberazione, i Vespri: qui, sul capo rovente della Badessa, cadde l’illuminazione.
Al galoppo, ventre a terra, traslò l’ossa aguzze nel fornetto suo personale, raggiante per instaurarvi il rimedio ultimo: con studiata, preziosa calligrafia un cartoncino incise, ad epitaffio e monito ai mortali, deposto a pie’ della bottiglia fatata.
Biglietto piccolo, si dirà, ma recante epigrafe eloquentissima:
“Ci ho sputato”
***
Il privilegiato visitatore al qual concesso fosse stato d’udire, alle sue spalle, il grave suono di antichi cardini del portone del Convento delle Crocefissone che si chiudeva al suo passaggio, sarebbe stato insieme strusciato da un presagio adombrato, indicibile, opprimente, avente per fuoco prospettico la percezione di star per essere risucchiato in un gorgo oscuro dello spazio siderale, che il petto perplima e confonda; non avrebbe però potuto ascoltare – stante l’abortita natura – l’urlo soffocato che Suor Giuseppa gloglottò prima di stramazzar svenuta al suolo, quando l’ultima immagine trattenuta nella sua retina opacizzata da fitta cataratta fu la chiazza di sangue che si distendeva sull’ammattonato spento.
Anche l’alba, del resto, si contenne livida, rannuvolata, carica di piombo sfuso.
Ma a quel punto, perdeva già conoscenza, non potendo giungere a stupirsi che così vermiglio e palpitante fosse il sangue della Recisa Madre, quasi che tra i veli un bimbetto fresco e bello si nascondesse, e non una arpia secca, storpiata dal tempo e ancor più dai taciuti, funesti aborrimenti.
Ché se per ventura umane creature avesser potuto origliare, ma – s’acquisisca definitivamente il dato, ora e poi più – non potevano, siffatto – scolpito a futura memoria – colloquio sarebbe rimasto in mente:
– «Madre..!»
– «Figlia..?»
– «Ho portato il suo caffè. Eccolo.»
– «Ah. Bene.»
– «Buon giorno Madre…»
– «Buon giorno un c–»
L’ischemia cerebrale, fulminante, di sicuro non la falciò a causa del disgusto patito per l’assunzione del primo sorso di caffè, in cui rimarcavasi l’eccesso sbadato di sale.
Chissà, quale seme fatale minava la vecchia carcassa.
Chi può dirlo..?
Nessuno seppe spiegarlo.
Le religiose più vicine alla Priora non trovarono una spiegazione convincente.
Nemmeno furon trovati, mai, i due cartoncini che Giuseppa giurava di averle visto in mano, un istante prima del tonfo.
Uno – s’è detto – recava: “Ci ho sputato”.
L’altro, più accomodante: “Anche noi”.
(Da uno sputo di Katia P.)
[1] Le parasonnie sono comportamenti insoliti che si manifestano appena prima di addormentarsi, durante il sonno o al risveglio. Si hanno contrazioni involontarie di breve durata degli arti superiori o di tutto il corpo. Talvolta, si verificano contrazioni alle gambe. Alcune persone presentano paralisi del sonno (tentano di muoversi senza riuscirci) o brevi allucinazioni prima dell’addormentamento o al risveglio. Altre stringono o digrignano i denti oppure hanno incubi notturni.
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