DAVID FOSTER WALLACE UNO SCRITTORE CHE VISSE TRA DEPRESSIONE E PSICOSI E POI SI UCCISE – di Daniele Musto
Mi sono svegliato con questa gran voglia di parlarvi della depressione psicotica che sottende alcune delle opere più riuscite di DFW, poi ho inspiegabilmente cambiato idea così vi parlerò del senso estetico/letterario dell’handicap fisico in Infinte Jest.
Infinite Jest, il noto romanzo monstre di David Foster Wallace colpisce anche perché costantemente e ossessivamente animato da figure di handicappati, disabili, storpi, disagiati, invalidi, sfigurati e malformati.
Gli esempi sono numerosissimi: Mario, il mezzano dei fratelli Incandenza, è affetto da una rarissima forma di focomelia che lo costringe a deambulare con particolari scarpe ortopediche a pianta quadrata come zoccoli equini e a reggersi in piedi appoggiato a uno sprone come fosse un treppiede umano. Pat Montesian, la fascinosa direttrice della Ennet House, casa di recupero per tossicodipendenti, è stata vittima di un ictus da overdose di free base che l’ha lasciata con mezza faccia, una gamba e il braccio destro paralizzati. Alice Moore, soprannominata La Laterale, a seguito di un incidente di elicottero riesce a spostarsi solo lateralmente. Remy Marathe, che ha perso le gambe sotto a un treno, e i suoi sodali della Afr (Assassini des Fauteulis Rollents), si muovono tutti in sedia a rotelle. La moglie di Marathe è nata senza cranio e drena fluidi cerebro-spinali da un elmetto di nichel e Joelle Van D. alias Madame Psycosis porta il velo dell’Udri (Unione Deformità Repellenti e Improbabili) o perché dotata di una bellezza così perfetta che lei vive come un’intollerabile deformità, o perché realmente sfigurata (non è chiaro, ma non è importante).
E si potrebbe andare avanti così ancora e ancora con altri personaggi e altre articolate forme di disfunzionalità fisica. Per non dire che anche i personaggi normodotati presentano storture, squilibri, irrisolvibili asimmetrie. Orin Incandenza, per esempio, ha una gamba vistosamente più grande dell’altra per via della pratica sportiva (fa il punter in una grande squadra di football). Tutti i tennisti dell’Eta (la scuola di tennis) hanno una parte del corpo più sviluppata dell’altra, quella del braccio che tiene la racchetta ovviamente. Ma sono anche o troppo piccoli o troppo grandi, o troppo magri o troppo robusti. I sederi sono sempre o troppo alti o troppo bassi, le braccia troppo lunghe o troppo corte. Avril Incandenza alias La Mami è troppo alta, James Incandenza alias Lui in Persona alias La Cicogna Matta pure, poi è goffo, storto, disarticolato. Insomma nessuno è mai giusto, dritto, proporzionato. O, quando lo è, lo è troppo, e comunque sia lo è in modo sbagliato. C’è un’ossessiva e compulsiva esposizione di corpi guasti, fisicità, odori, fluidi, umori. I corpi puzzano, i capelli sono unti, grassi, le pelli si ustionano al sole e si ingrassano e si cospargono di cose e si riempiono di brufoli e di pustole e di rughe. Lyle, l’istruttore asceta e filosofo della sala pesi dell’Eta, lecca il sudore degli atleti come forma di piacere e di ossessione.
L’intento di tanta ostentata, carnale fisicità è prima di tutto estetico: lo scenario deve essere vivo, vivido e vivace. È un’esigenza scenica e scenografica, prima di tutto. Devi vedere tutto, devi trovarti nel bel mezzo della scena e devi sentire gli odori, toccare gli umori, stare ‘stand up’ nel bel mezzo di un mondo che è una costruzione letteraria dall’a alla z, che non esiste se non nella mente iper letteraria dell’autore, un paramondo che diventa un metamondo e che non è presente, né passato, né futuro, né fantascienza: è letteratura. Un universo che è alternativo a tutto e ha un linguaggio alternativo di parole e di lemmi inventati e fantasiosissimi, e una situazione geopolitica internazionale contorta e divertentissima, e un’umanità anche alternativa, grottesca, bizzarra, ridicola e inquietante. Ecco l’esigenza di cui sopra. Wallace crea un mondo a suo modo fantastico e per animarlo ha bisogno di cigolanti sedie a rotelle, tutori, stampelle, sproni, bende, fasciature ortopediche e cinghie di cuoio.
Poi, secondo intento, quello più direttamente letterario. Faccio due esempi; due brani, per inciso, di incredibile compostezza stilistica. Ma anche due momenti in cui la poetica di Wallace muove i fili che gli sono più congeniali, e lo fa con grande intensità: lo spettro della solitudine, la distanza incolmabile tra le persone, l’incomunicabilità, l’anaffettività.
1) Mario Incandenza, descritto quasi come una specie di replicante, un uomo metà uomo e metà macchina da presa, che, con la sua complicata e pesante cinepresa incinghiata sulla testa, appollaiato sul suo sprone, mentre filma le spettacolari colline circostanti i campi da tennis dell’Eta, col sole che tramonta all’orizzonte passando da un arancio combustione a un porpora infernale, da una delle stanze da letto dell’Ennet House, ritrova, commosso, nella registrazione di una trasmissione radiofonica che era solito ascoltare fino a qualche mese prima, la voce suadente e ipnotica della speaker del programma; quel leggero e affascinante accento del sud e quell’incedere monotono di cui era innamorato e di cui sentiva una terribile mancanza. Sembra un cane che dopo anni di solitudine sente e riconosce la voce del suo amato padrone, ma non può fare niente per raggiungerlo. E allora eccolo qui, Wallace, e allora eccolo qui Infinite Jest: lo cogli adesso, anche adesso, nel grottesco, nel non convenzionale, nell’impossibilità di soddisfare i nostri bisogni, nell’impotenza e nella struggente umanità dei suoi personaggi perduti perché troppo esposti, troppo fragili, troppo soli, troppo indifesi e meschini e totalmente incapaci di incontrarsi, di parlarsi, di ascoltarsi e di raccontarsi. Cosa c’è di più remoto di una voce, addirittura registrata, che esce dalla finestra della camera da letto di uno sconosciuto? Ma anche, specularmente, cosa c’è di più intimo di una voce femminile che tutte le notti ti culla da una radio per farti addormentare? È un incontro/non incontro che si muove su uno slittamento temporale. Un incontro/non incontro che si perde nella fredda lontananza della registrazione di un programma radiofonico. Mario se ne sta lì, in piedi, appollaiato col busto contro il suo sprone e quella donna, la speaker, dopo aver abbandonato la trasmissione radiofonica qualche mese prima, adesso risiede, velata perché ‘handicappata di troppa bellezza’, ebbene sì, in una casa di recupero per tossicodipendenti dopo aver scientemente tentato il suicidio con un’overdose di cocaina. Entrambi così handicappati, così irrimediabilmente soli, così fragili e lontani. Una malinconia che lascia senza fiato. Come senza fiato lascia l’altro brano, dalla medesima impronta poietica, che porto ad esempio e che ha per protagonisti Randy Marathe e sua moglie Gertrude, nata senza cervello, vegetale dalla nascita. Siamo quasi alla fine del libro. Lui è ubriaco e sta raccontando la storia a un personaggio femminile di nome Katherine, conosciuta in un locale:
2) Lui rivede Gertrude mentre lei, in sedia a rotelle, sta finendo sotto a un camion. Stacca il fermo della sua sedia a rotelle e si butta giù per la collina. La scena è questa: un paraplegico su una sedia a rotelle che insegue una malformata senza il cervello su un’altra sedia a rotelle. La salva; lei perde fluidi cerebro spinali con la testa afflosciata a terra come un palloncino sgonfio e lui se ne innamora, non può più vivere senza di lei; il solo fatto di averle salvato la vita lo tiene lontano dai propositi suicidi che aveva prima di salvarla. Lei, nel modo e nel mondo di Infinite Jest, per lui, è la vita.
Tra il grottesco e il romantico, ancora, tra il comico e il drammatico, siamo oltre le regole e oltre l’estetica, perlomeno quella a cui siamo avvezzi, la nostra, quella comune, quella conosciuta del mondo che ci circonda. Qui no, si va al di là, è tutto nuovo, tutto creato da zero, inventato. Wallace mette in gioco tutto e grosso modo tutto quadra. Ecco quindi un altro incontro/non incontro, un altro di mille altri; un altro contatto che non esiste. Lei, Gertrude, subisce l’amore di lui, Marathe; non è cosciente, è in stato vegetativo. Lui cade vittima di un amore massimamente ego riferito. Se si allontana da lei, muore. Ancora la tensione di due forze eguali, ma opposte. Ancora i corpi. Cosa c’è di più lontano di una persona in stato vegetativo? Ma, ancora: quale forma di amore più pura e cristallina di una forza che lega due persone al di là del corpo, dell’intelletto e della ragione, per il solo, semplice fatto che ‘senza di te muoio’? Tensione; ecco a cosa serve l’handicap, ecco a cosa servono le sedie a rotelle, le cinghie e i tutori. Per Wallace perfetti strumenti letterari ed estetici per mettere in scena tutto quello che gli interessa: la fragilità, l’incomunicabilità, la distanza, la solitudine.
Perfetti per descrivere un mondo in cui nessuno riesce più ad arrivare a nessuno, in cui non ci si combina se non in modo distruttivo e regressivo (incestuoso: madre/figlio, padre/figlia, sorella/fratello), in cui non ci si incontra, ma solo ci si scontra; ed è straziante, ed è struggente. A questo punto non rimane che l’io. E dopo l’io, l’iper-io che si perde nel piacere estremo del piacere per il piacere. Quello assoluto e purissimo dell’Intrattenimento; quello definitivo, quello finale, psicotico, regressivo, esiziale e distruttivo che porta alla morte.
Ed eccolo ancora, allora, Wallace, tenero e beffardo, nel suo monito inquietante e ahimè tristemente premonitore: dal piacere solitario, onanistico ed ego riferito dell’Intrattenimento con la ‘i’ maiuscola, da una società deflagrata in milioni di monadi lettore tp/individuo, dalla fine dell’uomo sociale, adesso, attenti, non resta che la morte. Siamo appena un attimo prima della fine, noi: ci salveremo? Lui, purtroppo, sappiamo tutti com’è andata a finire la faccenda.
Purtroppo.
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