LA RESILIENZA DI NADIA TOFFA – di Paolo Colonnello

Dato che leggo molti interventi sul libro di Nadia Toffa (“Jene”) accusata in particolare da un noto polemista di aver scritto più o meno che il “cancro è un dono”, e che gran parte di questi interventi sono al solito strafottenti, sbrigativi e spesso crudeli, vorrei spezzare umilmente una lancia a favore di questa ragazza. Credo che neppure lontanamente Nadia Toffa pensi davvero che avere un tumore sia un dono, non in senso letterale per lo meno. Perché ci sta passando e posso solo immaginare quanto anche per lei sia dura e difficile, e spaventevole. Credo che abbia voluto scrivere un libro (come ho fatto anch’io, per altro, ma non c’è alcuna solidarietà di categoria in questo) non per spettacolarizzare la sua malattia ma per cercare di spiegare quella strana forma di resilienza che può (può, non deve necessariamente) cogliere chi deve affrontare un cancro. E per raccontare, immagino, la scoperta che esiste sempre un’altra faccia della medaglia per le cose brutte della vita. Non l’ho letta e non so nemmeno se la leggerò. Ma essendo passato da un’esperienza simile, credo di non sbagliarmi quando dico che il rischio è quello di fraintenderla.
Vedete, quando ti viene diagnosticato un tumore di solito la prima reazione è di annientamento, è come se ti comunicassero una condanna a morte. Entri in un particolare stato d’animo di grande fragilità e, dopo un po’ (qualche volta, eh? siamo sempre nel campo del relativismo soggettivo) anche di forza. Inizi a fare i conti (veri, non teorici o estemporanei), con la caducità della vita, con la possibilità di un’invalidazione fisica permanente, con le difficoltà sul lavoro, dei rapporti in famiglia, persino con dei sensi di colpa. Al tempo stesso inizi ad accorgerti, tra chemio, radio, prelievi, visite, ricoveri, stanchezze, come il ritmo della vita possa rallentare e lasciare spazio non solo alle paure ma anche a riflessioni, a sorprendenti voglie di amore e di umanità. Ci sentiamo più indifesi ma anche molto più forti, più consapevoli. Siamo nudi davanti alla malattia e alla morte, e la nostra debolezza è ciò che alla fine ci rende amabili. Certo, chi ha il culto del machismo, dell’uomo bionico o alla ricerca perenne di sfide impossibili, fa fatica ad accettare che la nostra fragilità sia alla fine un punto di forza. Credo che la Toffa abbia cercato di raccontare tutto ciò e penso che abbia cercato di farlo senza spocchia e senza presunzione perché chi passa attraverso un tumore abbandona necessariamente questi sentimenti che invece qualcuno ha voluto attribuirle. Magari, abituata a trasmissioni televisive un po’ urlate, ha cercato uno stile che mutuasse il linguaggio televisivo, talvolta superficiale, all’interno di un libro (il che dimostra ancora una volta quanto la parola vada adattata al medium che si utilizza). “Chi combatte un tumore è un figo pazzesco!”, come lei ha scritto, è solo uno slogan. E va preso per quello che è, nella genuinità di chi ha visto intorno a sé la dignità della sofferenza e di chi, ancora giovane, voglia urlare al mondo di come ha accolto una sfida che comunque appare sempre pazzesca, ingiusta, disumana. Tutto ciò non esclude il dolore, non lo elude. Sono sicuro che Nadia sappia perfettamente e lo abbia scritto, quanta paura e quanta nausea – nonostante tutto, nonostante la resilienza, nonostante gli slogan – provi chi si ammala di cancro. E quanta umanità/bellezza possa scoprire intorno a sé (cosa che si può fare benissimo, sia inteso, anche senza ammalarsi di cancro). Accusarla di altro, di irriverenza verso altri malati o di bieca spettacolarizzazione, è non aver capito, equivale a cercare di ricacciare malati e malattia nell’oblio di chi non vuole sapere, nel silenzio della sofferenza. Tra scongiuri e preghiere, sperando che un giorno non tocchi anche a noi.

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