IL “CIBO SPAZZATURA” – di Danilo Cannizzaro

Il “cibo spazzatura”

 

Uno studio condotto da Erica Schulte (pubblicato sulla rivista Appetite) presso la University of Michigan segnala un aspetto molto interessante: smettendo di mangiare “cibo spazzatura” – come patatine fritte, dolci, bibite, snack – almeno per la prima settimana si patiscono gli stessi sintomi di astinenza tipici del tossicodipendente che inizia a disintossicarsi: in agguato, quindi, mal di testa, irritabilità, ansia, perfino depressione. Altri studi affini, in passato, han suggerito che l’ingestione di “robaccia” interessa i medesimi centri nervosi che governano le sensazioni dell’appagamento e del piacere provocate dalla dipendenza da fumo, alcol e droghe.

 

***

 

Ciò riceve ulteriore conferma da quanto accaduto qualche tempo fa in una delle campagne della Contea di Modica, tenute sotto costante minaccia di siccità da un clima implacabile.

In queste latitudini, i mesi caldi duravano – ma, oggi ancora – a lungo, pertanto l’acqua era, di norma, considerata un bene prezioso: farne giudiziosa economia ne conseguiva come uno dei più usuali provvedimenti del contado, dei bovari, dei bifolchi in genere; non diversamente possedeva eminente valore per gli usi domestici delle altre famiglie, alle quali era stato impartito, dalle passate generazioni, il prudente insegnamento di riservare sempre un occhio vigile verso tal indispensabile elemento.

Grazie ai numerosi pozzi escavati un po’ dovunque – che si rifornivano da vene minerali spesso d’ottima qualità potabile – essa veniva accumulata in grandi cisterne che ne assicuravano l’agio non soltanto per l’igiene casalinga, ma anche in largo uso per la cucina.

 

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II ragioniere Schembari, riunito al tavolo da pranzo con la sua cospicua consorte, – donna ingenua e innocente, quella buona provinciale non aveva mai imposto torture alla anima sua allo scopo di ottenere una qualche sovrabbondante ed estranea sfumatura di sentimento o di dolore, talché, se proprio fosse stata costretta a tormentare il suo pensiero con concetti affini alle passioni, l’avrebbe fatto in criterio simile a quello con cui i suoi parenti pensavano alla vincita al totocalcio: fantasticherie e fumo di sterpaglia buono per abbindolare qualche sconclusionato – aveva per irriducibile mania quella di spiegare tutta la pompa della sua abbreviata importanza controllando, come fosse vero intenditore della fabbricazione dei metalli, le posate nel dettaglio più trascurabile. Il che gli dava un’aria grave e posata, come di chi non possa sottrarsi a quel genere di ricordi che sgorgano da un animo pensoso e profondo.

La moglie lo lasciava fare, naturalmente, poiché ben sapeva quanto fosse importante, ai fini della carriera donnesca e a quelli pensionistici, custodire in buona salute e considerazione di sé un marito fesso – anche le donne meno navigate imparano, con mediocre impegno, a trar durevole vantaggio dalla stupidità maschile.

– «Però, uh! Ah, hum! E insomma..! ma beello, questo spezzatino, bello[1] veramente!»

– «Vero?» – rispose la signora Pinella, compiacendosi del suo comprovato credito in ingegno gastronomico.

– «Sisì! Ti dico, veramente. Bello, bello. Saporito. Anzi, magari più saporito dell’altra volta. Anzi no, pure l’altra volta era saporito assai. Complimenti!»

– «Grazie, mi fa piacere. Effettivamente mi sta venendo bene.»

– «Ci metti qualche ingrediente nuovo?»

– No… o forse mi è caduto un poco di sale in più… mah!?!

– «Non è questione di sale. È proprio ricco di sapore, vàh, si sente la carne. Magari il macellaio te la dà migliore. Sisì, la qualità è migliore. Si sente che la bestia non è stata ferma, ma ha camminato, è andata in giro senza controllo, forse si è scelta il nutrimento più… più… più… no?»

– «Ah sì. Può essere. Hai voglia! C’è da dire che le verdure che ci metto sono belle fresche. Quelle portano sapore…»

– «Può essere. Però… questo brodetto, non è cosa che viene dalle verdure. Mi scialo a bagnarci il pane! Ahh! Mi finirei un filoncino sano

– «E infatti siete di famiglia. Pure tuo zio Carmelo, la soddisfazione più grande che ha, è quella di pulirsi il piatto con mezzo chilo di pane. Almeno, mezzo chilo!» – “chilo” lo pronunciò, involontariamente, gracidando, cosa che per un attimo fece sorprendere il marito.

 

***

 

Lo zio Carmelo, vivace come un giovane farabutto, brillante come un gobbo, davvero aveva questa ed altre – laddove parecchio, laddove in misura ridotta – discutibili passioncelle, prandiali e non. Tante, tante. Come quella d’inghiottire un intero galletto di pane voluttuosamente rimestato nella pentola del sugo, prima ch’essa facesse la sua comparsa in tavola; quella di dissimulare un lungo, malinconico rutto nel bicchiere per un terzo pien di vino – non un centilitro di più, non uno di meno – a metà pasto all’incirca; oppure quella, arrivati alla frutta, di sfilarsi le scarpe coi piedi stessi, e grattarsi febbrilmente gli stinchi in modo alquanto rumoroso con le unghie degli alluci, smisurate e previamente esentate dalla costrizione del calzino tramite un grosso buco – chissà, probabilmente praticato di proposito, o, per sorte,  prodotto dagli unghioni mostruosi – mentre invariabilmente ragguagliava i presenti – non importa quanti ne fossero – in merito alla decadenza dei valori e alla progressiva scomparsa del reciproco rispetto, sani costumi dei bei tempi antichi. Od ancora quella – ma con questa sarà bene interromper la sequela, a scanso di metter mano ad un altro, non previsto racconto – di rastrellare a fine pasto con l’unghia del mignolo della man destra – mentre con la manca descriveva circoli di fumo azzurrino ed ampie, immaginifiche  volute, con una oscena cicca senza filtro (i cui sterpi intimorivano gli astanti incendiandosi con gran scoppiettìo e mandando minacciosi barbagli torno torno) – terribili pallottoline di forfora e muco nasale che, amalgamate con cura certosina, diventavano orridi proiettili mandati a schiantarsi sulla carta da parati, con indicibile raccapriccio della signora Pinella, la quale si assentava immediatamente dalla comune per andare a schiumare, idrofoba, bava di fiele in cucina.

Da sola.

In preda alle convulsioni.

(Penosissimo a vedersi!).

Poi se la faceva passare, si sciacquava la bocca, e consapevole del fatto che l’ipocrisia, per essere utile, è utile nasconderla, ricompariva in soggiorno, la fronte imperlata da grasse gocce distillate dalle linfe dell’odio più genuino e del più rancoroso aborrimento.

 

***

 

– «E vabbè, mischinu, è anziano. Sai come sono gli anziani.» – qui il ragioniere smorfiò un sorriso, pago del proprio indimostrato senso di consapevolezza delle cose della vita.

– «Com’è che non si vede più da qualche settimana, a proposito? Ogni domenica è sempre qui, da noi…» – e, meccanicamente, disse “noi”, la signora Pinella, con la voce arrochita da un fiotterello di bile tenuto a bada appena in tempo.

– «Ma vero!» – fece Schembari – «Non è che, per caso, hai avuto qualche discussione con lui? L’ultima volta non mi ha neanche salutato, quando è andato via…»

– «Ma figurati! Non lo sai com’è tuo zio? Va sempre di fretta, soprattutto dopo pranzo, ché sembra avere sempre qualche urgenza impellente, qualche cosa importantissima da fare…» – per quanto potesse controllarsi, l’individuo moglie subiva una manifesta alterazione della pronunzia, quando si riferiva a quel barbaro imbrattatore di pareti… e tende – va rivelato – dato che uno fra gli altri singolari entusiasmi dello zio (sicuramente condannato all’inferno, stando ai pii canoni della donna) era quello di pulirsi vigliaccamente la bocca, con i tendaggi della sala da pranzo, e (ella sperava appassionatamente potesse trattarsi – soltanto – del medesimo orifizio) con quelli della sala da bagno (dono, quest’ultimi, di una zia sua personale, infruttuosamente corteggiata dall’empio Carmelo durante la sua scellerata gioventù).

– «Ah, che sagoma!» – tentò istintivamente di riparare il ragionier – «devo proprio fargli un colpo di telefono!»

– «Ceerto..!» – sibilò la signora Pinella, pascendo nel suo cuoricino i più commossi aneliti di lesto avvento di colpi ben differenti, allo zio.

 

***

 

Svegliatasi in uno splendente mattino di luglio, non foss’altro che per l’impareggiabile privilegio tutto femminile che gli derivava dal far sempre tutto ciò che il capriccio del momento le ispirava, Pinella emise (prima, un flebile sbadiglio, poi un bofonchiato commento che quasi sicuramente doveva avere per contenuto l’apparente bontà degli aspetti meteorologici, infine) l’inappellabile sentenza:

– «Non c’è quasi più acqua nella cisterna, chiama il signor Mezzasalma per farla ripulire prima di riempirla di nuovo.»

A capo di mattina, c’è poco da discutere: sei ape? si va a succhiar miele.

Sei il ragionier Schembarazzo? si esegue l’ordinanza.

 

***

 

Come tutte le persone volgari, Mezzasalma Antonino, di professione… beh, diremo variabile – benché si possa dire con sufficiente fedeltà che tra le sue prestazioni d’opera rientrasse la politura di pozzi e cisterne (in mancanza di meglio da ripulire, ad esempio principe gli appartamenti delle contrade viciniori) – esagerava le proprie sensazioni allo scopo di ottenere un certo effettaccio drammatico, laddove, le persone alle quali egli avrebbe disturbato il colloquio, generalmente attenuano un poco i loro sentimenti, e ciò non per insincerità, ma per una specie di istintivo pudore, alla gente comune sconosciuto. Tuttavia, finanche depurata dalla feccia dell’amplificazione sostenuta dal personaggio Mezzasalma, la motivazione dell’urlo – “che nulla aveva d’umano! ” – tuonato all’interno della gebbia [2] sussisteva in tutta la sua perspicuità:

– «Ahhh! Currìte! Currìte

La signora Pinella, che nel terrore mai domo d’imparare qualcosa di nuovo, s’era fatta, ad ogni buon conto, una regola anteriore ad ogni nuova esperienza, sospirò tristemente al marito:

– «Oh Dio, oh Dio mio! Ecco, lo sapevo! I carabinieri in casa nostra! Che vergogna! Presto, vai a vedere..!»

Qui l’Autore deve ammettere che gli mancano le espressioni adatte per dare un’idea dello sgomento e della costernazione che ghermirono il Schembaro sopraggiunto presso la gebbia scoperchiata.

La sua testa era come disorganizzata da un calore ardente.

– «Oh Signùri! Madonna del Carmine benedetta! Oh GesùGiusepp’emMaria!» – piangeva l’infelice.

Il pensiero che gli dava la visione di quella cisterna l’investiva, con tutta l’attrattiva di una sconvolgente novità – e le novità, in provincia, si assaporano fino all’ultima goccia – come una fiamma divoratrice e ingorda, poiché lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi, abbandonandolo interamente in balìa di se stesso, parve accrescere l’orrore del momento presente, per cui non gli riuscì di esprimersi, come Medea: “In mezzo a tanti pericoli, mi resto io”, e come grida l’infelice torturato dal bisturi del chirurgo, con tale azion reputando di dar sollievo al proprio dolore, gridò:

– «Zio! Ô zio!»

Scoraggiata dalla rappresentazione mentale di una fresca malefatta carmelitana, e avendo temporaneamente perso la padronanza del suo rituale contegno conforme, la signora Pinella, risoluta a frugare col ferro nella ferita, accorrendo esclamò:

– «Vediamo, dunque, e vediamola, l’ultima minchiata di questo pezzo di lestofante!»

– «Prego Dio» – amaramente sussurrò quel marito accasciato, guardandola con l’occhio severo dell’uomo disgraziato – «che ti conservi tutta l’incoscienza di cui sei degna. E, credimi, è dire molto. Molto.»

La frase fu da lei giudicata molto profonda.

Troppo profonda, per dover essere scandagliata.

Pertanto, preoccupandosi ora principalmente delle scomposte manifestazioni del Mezzasalma che con gran strepito rantolava all’interno della “sua” cisterna, ricoprendosi dignitosamente del suo abito di diplomata al liceo classico, riprese più conciliante:

– «Ma insomma! Costui disserta, non conversa. Che c’è? Che cos…»

– «Guarda!»

 

***

 

Dopo pochi giorni, avendo finalmente scoperto perché il suo brodo aveva recentemente acquistato quel sapore così ricco, la signora Pinella disperdeva affettuose lacrime alla memoria della buon’anima dello zio Carmelo, morto per la caduta fatale nella gebbia:

– «Ah, povero zio, non ce l’ho più con lui…»

 

 

[1] Nel senso di: buono.

[2] Nome siculo per “cisterna”.

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