QUANDO MUORE UN PARTIGIANO CHE FU DEPORTATO A DACHAU… ADDIO ETTORE ZILLI – di Maurizio Merlotti

Ieri se ne è andato un giusto, un Partigiano. Fu deportato a Dahcau dopo gli scioperi del marzo 44 a Sesto San Giovanni, era operaio alla Pirelli, friulano e grande amico del poeta padre David Maria Turoldo, che gli dedicò una poesia, scritta su un tovagliolo di carta che Ettore conservava. Un amico per me. Ettore Zilli. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ha avuto il dono di conoscere un uomo che dopo la deportazione a Dahcau ha saputo mantenere intatta la sua umanità. Caro Ettore, porto con me le chiacchierate su poesia, deportazione e pure la tua mano amica in un momento di grande dolore per me. Sei nel luogo dei giusti, accanto al tuo amico Padre Davide.

 

Così scriveva il Partigiano Ettore Zilli:

 

«Mio zio Giuseppe fu “oliato” dalle squadracce di picchiatori fascisti e lui per vendicarsi sfoga la rabbia sul Podestà e viene arrestato. Viene seviziato, ma essendo stato decorato nella prima guerra mondiale le violenze si fermano lí. Si salva solo perché emigra in Argentina. Il 10 giugno del 1940 alle ore 18 Mussolini convocò gli italiani nelle piazze delle città d’Italia, collegate a Roma via radio per annunciare l’entrata in guerra dal balcone di Palazzo Venezia”. Ettore e un suo amico decidono di disertare l’adunata nella piazza di Zoppola, ma i fascisti li costrinsero a schiaffi a raggiungere la piazza. Dopo l’8 settembre, aveva 19 anni, con un assalto alla caserma del paese si impadronisce di 6 fucili che successivamente passò ai partigiani. Il 28 ottobre del 1944 viene arrestato con altri partigiani e portato a Pordenone, viene rinchiuso nel carcere del Castello, in una piccola cella con altri 11 detenuti e successivamente trasferito nel carcere di Udine dove per due volte fu portato nel cortile per essere fucilato. Racconta ancora Ettore: «Assieme a me quella notte furono arrestati altri 34 partigiani, ci caricarono tutti su un treno con destinazione Germania, ma mentre eravamo in viaggio avvenne un bombardamento sulla stazione di Salisburgo e quella fu la mia fortuna. I tedeschi ci lasciarono a Salisburgo per due mesi per chiudere le buche lungo la ferrovia. Eravamo trattati come bestie, ma non era nulla confronto di quello che avrei vissuto a Dachau. Arrivai a Dachau diversi mesi dopo perché prima ci fermarono a Reichenau in un campo di smistamento. Fu qui che mi fu dato il numero di riconoscimento che mi portai dietro anche nel lager. Dopo alcuni giorni fui caricato sul treno insieme ad altri e dopo un viaggio durato tre giorni fui internato nel campo di lavoro e di sterminio di Dachau in Germania, dove all’entrata campeggiava la scritta tristemente famosa “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, come ad Auschwitz. Qui fui destinato alla baracca 7. Eravamo 400 persone in uno spazio che ne poteva contenere a malapena la metà. Sulla branda di 2 metri per 90 cm, dormivamo in 4. Due da un capo e due dall’altro, testa piedi. Spesso ci svegliavamo al mattino con al fianco un compagno morto. Il numero che ci era stato assegnato dovevamo pronunciarlo in tedesco due volte al giorno, all’appello della mattina e della sera. Nei campi di sterminio la vita non valeva niente. Oltre ai nazisti anche i kapò, che erano prigionieri e prigioniere trasformati in guardiani di quei derelitti, uccidevano per niente. Eravamo scheletri viventi e a Dachau si moriva anche per il freddo. Il pasto consisteva in una brodaglia di barbabietole e in una pagnotta da un chilo per ogni sei persone. Un giorno mentre trasportavo fuori dalla baracca n. 5 gli escrementi in un grande contenitore metallico ebbi un mancamento per lo sforzo e caddi sommerso dagli escrementi. Il soldato che ci scortava mi colpì violentemente con il calcio del fucile provocandomi la frattura della mascella e il taglio parziale della lingua di cui ancora oggi subisco conseguenze e per alcuni giorni stetti in preda al delirio con febbre alta. Prima dell’arrivo degli Alleati gli aguzzini nazisti avevano deciso di uccidere i prigionieri e a tale scopo avevano chiamato come rinforzo i Vigili del Fuoco di Monaco che però si rifiutarono di sparare sui prigionieri e rivolsero le armi contro le SS».

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