“IL SOLE SORGE ANCORA” di Matteo Farneti

Per molto tempo non avevo creduto a Hemingway. L’avevo scoperto a vent’anni, subito ricoperto da una patina di mito, di lotte e seduzioni, per poi approdare a uno dei suoi libri più celebri: Il Vecchio e il Mare. Che delusione! Davvero era quella la grande letteratura? Quella cosa per cui valeva la pena vivere? Non potevo crederci. L’avevo risolta mettendo Hemingway nella categoria dei grandi sopravvalutati (piuttosto affollata a dire, il vero, basti pensare a Moravia, Calvino, Gide e Sartre, Mann e Saint-Exupéry). Di una storia esemplare, con un vecchio pescatore, creato ad arte per mostrarmi la vita, la potenza della natura e degli oceani, non sapevo che farmene. Poi era venuto Fiesta (che mi ostino a chiamare col suo titolo americano – Il Sole Sorge Ancora). L’avevo incontrato per caso, nella cuccetta di un treno per Parigi. Il mio amico stava leggendo, prima di addormentarsi, questo libretto gualcito, un po’ ingiallito, che riportava in copertina scene di corride. Il tutto in effetti era molto hemingwayano. Mi ero ripromesso di leggerlo anch’io, una volta tornati. E di colpo avevo scoperto uno scrittore, ma non solo – il suo mondo, fantastico per me.

 

Caso unico fra gli scrittori (l’unica eccezione che mi viene in mente è proprio quella di un suo caro “amico-nemico”, Francis Scott Fitzgerald) Hemingway è inseparabile da un certo sfondo. Sarebbe difficile immaginare Kafka in costume, su una spiaggia, tanto come Eco a caccia di alligatori, ma in ogni caso dove hanno vissuto, e quello che hanno fatto, non ha – troppa – importanza. Hemingway invece è legato a filo doppio a quegli anni magici, venuti dopo la Guerra. Li chiamavano i Roaring Twenties, l’Età Del Jazz, perché nonostante tutto la borsa correva, e quei pochi che riuscivano ad approfittarne, fra le macerie, potevano ancora correre e ballare, scopare e riempirsi di whisky. Si percepiva il fascino della decadenza, la fine di un mondo, ma anche i bagliori di una nuova era. L’aria era elettrica, trasmetteva una terribile, devastante energia, che spingeva a viaggiare e scoprire cose, sempre sul filo del rasoio. L’America era la sorgente della forza, l’Europa uno scrigno di vecchi piaceri, da gustare con gioia. Giovani americani lasciavano le metropoli per riversarsi a Parigi, dove si abbandonavano alla pura bohéme, alle meraviglie dell’arte e della droga. La chiamavano – con un pizzico di retorica – la Lost Generation. E chi poteva cantarla meglio di lui – il grande Hemingway? Soltanto il suo rivale, Francis Scott Fitzgerald. E difatti di quell’epoca ci restano due perle – Fiesta, appunto, e il suo contraltare romantico, Tenera è la Notte.

 

Citati, di quest’ultimo, ha scritto che è “un romanzo sul fascino”. Penso si possa dire lo stesso anche di Fiesta. Lo stile è decisamente diverso, più tornito, essenziale, privo di quelle lussureggianti cascate di prosa che ci fanno amare Fitzgerald. Eppure anche qui ci sono dei colori vivissimi, un’aria limpida e pura, e sterminati orizzonti, paragonabili solo a un tramonto sull’oceano. Questa storia ci cattura in un modo quasi totalizzante. Difficile leggerla e non pensare – sì, avrei voluto viverlo anche io. Avrei dovuto esserci laggiù, insieme a loro. Il resto è tempo sprecato. Ma come ci è riuscito? Dov’è il trucco? E così facile, in realtà, che ci hanno provato a milioni, senza mai riuscirci (tranne forse Mordecai): basta raccontare la propria vita, togliendo le parti noiose. E nessuno sa farlo meglio di Hemingway.

 

Fiesta non è altro che un roman à clef, un romanzo a chiave, dove vengono narrate vicende reali, o al massimo un po’ ritoccate, con nomi differenti. Hemingway qui diventa Jake Barnes, Duff Twysden Lady Brett Ashley, e così via, in un gioco infinito di specchi, rimandi, citazioni. In scena le loro vite di quegli anni, fra una festa e una battuta di caccia, una corrida e una romantica liason, sempre sullo sfondo di Montmartre, di una spiaggia o una Spagna edenica. Non c’è significato se non una testimonianza, incredibilmente incisiva, di forza, energia, entusiasmo, del gusto di vivere goccia a goccia, sorbendo fino in fondo il nettare dell’esistenza. Molti, a cominciare da Fitzgerald, avrebbero pagato a caro prezzo le scorie di quella dolce follia. Altri si sarebbero rifugiati nell’alcolismo o in qualche ideologia politica. Ma intanto avevano vissuto – e chi può dire altrettanto? È concesso a pochi.

 

Ci sono libri più grandi di questo, eppure, se avessi poco spazio nella valigia lo porterei sempre. Ci meritiamo un po’ di conforto, come un bel caffè caldo, un bacio o un sorso di whisky. Senza certi piaceri, della vita non rimane quasi niente. Perciò dimenticatevi di ciò che sapete, della miriade di balle e pregiudizi con cui infarciamo ogni giornata, solo per rimandare la vita a domani. Se c’è una cosa che pretende da noi, è di accadere adesso, fino in fondo, senza alcuna remissione. Può essere letale, ma è incredibilmente piacevole. Questo non significa imitare Hemingway – il suo mondo è ormai inabissato – ma estrarre il succo dalle sue parole. O se proprio non riusciamo… Fiesta è là, chiede solo di essere letto.

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