CONFESSIONI DI UNA MENTE PERICOLOSA 2 – di Danilo Cannizzaro
Confessioni di una mente pericolosa 2 (*)
(*) George Clooney, Julia Roberts, Drew Barrymore, Sam Rockwell. Che dire? Sentitamente Vi ringrazio, amici, per il fecondo contributo alla titolazione, e Vi dedico un affettuoso ganascino. Alla prossima, ragazzi!
Un venticinquenne italiano è stato individuato responsabile della violazione di settanta siti istituzionali di enti territoriali italiani e stranieri, compreso quello dell’agenzia spaziale americana, la Nasa, guadagnandosi l’accusa di accesso abusivo e danneggiamento a sistema informatico.
La circostanza, poi, ch’egli abbia inoltre ammesso le sue responsabilità, mette definitivamente in risalto le inequivocabili analogie – per chi sia dotato di un minimo di attenzione e di prontezza cognitiva – con la vicenda qui di seguito narrata.
***
L’Autore, – che già per il solo fatto di parlar di sé in terza persona, sarebbe opportuno capire in quale risplendente considerazione sia Egli da tenere – avverte preliminarmente la necessità di dire adesso due paroline – due – alle Muse, permanendo tuttavia indeciso e dubbioso sulla scelta di rivolgersi specificatamente a chi d’Esse – protettrici di ogni umana sapienza.
La vicissitudine descritta è forse appannaggio di Clio? Oppure di ciò se ne occupa Euterpe? E se invece fosse Thalia? Melpomene? Il timor di far torto ad Erato, Polinnia, Calliope,[1] è forte, anzichenò.
Nel dubbio, lacerante, le delega tutte (si rammenti che Egli è sempre, un Illuminato, e non è intaccato nel suo animo nobilissimo dal tarlo funesto della discriminazione o da quello parimenti insalubre del pregiudizio).
(Va perciò a congegnarle, queste due parole):
“Ȏ Muse, lo so, vi conosco: Voi adesso siete pronte ad insufflarmi la tentazione di alati volteggi poetici, di seducenti arabeschi oratorii, di altre belle sparate declamatorie.
Però io non posso.
Non voglio. È mia ferma intenzione, anzi, restare fedele alla nudità e alla crudezza degli avvenimenti riferiti, così com’ ebbero a svolgersi, senza adornarli d’altri fronzoli che non siano esattamente quelli autentici, nativi.
Abbiate quindi la bontà di andare a fare le Ninfe delle sorgenti, o non siete divinità personificanti le fresche acque spiccianti dal profondo della terra o dai fianchi dei monti?
Su’, dai, ché qui c’è gente che dobbiamo fare i deferenti cronisti del Vero.”.
***
Un conoscente lo trovò seduto sul basamento della massiccia fontana di pietra posta dinanzi l’ingresso del portone di casa. Teneva la testa fra le mani, turbato, stupefatto.
Indubbiamente era lì per svolgere con diligenza la mansione di rimacinare pensieri con la mola grossa, ed affaccendato, senza economia alcuna, nel dispendio di energie in favor dell’atto di infliggersi un indefinibile malessere, nella preparazione del quale doveva probabilmente entrare l’ingrediente dell’angustia di ritrovarsi solo, al buio, in un agro immerso nella caligine notturna, e tutto, tutto, sprofondato in un assillante profondo silenzio: il silenzio della campagna.
(Ah! II silenzio della campagna!).
Era per accadere che, da lì ad una manciata d’istanti, una tempesta splendida – formata da cumuli sfavillanti e nembi sontuosi, messi lì a forma di giganteschi tondi zuccheri filati dalle parabole pompose ed eleganti, colmati di bianco perlaceo iridescente – avrebbe usurpato lentamente l’orizzonte, scortata dai suoi minacciosi scrosci elettrici.
Bisognava vederla! un’immensa nave da battaglia sembrava: allestita da uno stratega ostile, deciso a cannoneggiare questo, ed altri pianeti – se avanza tempo.
Furon ebbene le saette, irregolari lame sfolgoranti, a sventrar rabbiosamente le pance delle nuvole, tranciandole in brandelli luminosi.
Altra rata di secondi, e fu la volta del fracasso del tuono, sì che l’orecchio si spiegò quel che l’occhio gli aveva mostrato: tanto bastò perché la campagna si persuadesse a sollecitare il fremito caratteristico del sopraggiungere del vento.
– «Cuncè, ma che ’ffài?» – premuroso sospirò il tizio.
– «Ah! Làssimi stàri..! ’À ’bbèdda carriòla! M’à futtèru. N’atra vota!» – sinteticamente gli pianse Concetto, riepilogando l’ennesimo furto dell’adorata carriola.
(Una meravigliosa, carriola in lamiera d’acciaio).
(Qualcuno racconta che fu Leonardo da Vinci ad inventarla, stanco di vedere gli operai trasportare con fatica pochi pesi alla volta, ma ragguaglieremo su questo in un’altra occasione).
La stessa lapa, [2] attaccata all’albero, gorgogliava lacrimucce solidali, di tra le crepe del marmittino arrugginito.
Dal cielo butterato atterrò finalmente la pioggia – quella delle grandi occasioni, con le insegne, le decorazioni e i brillocchi in livrea – seco recando il preciso incarico d’innaffiare in abbondanza cose, persone, lape, animali, verbi, mestieri, fiori e nomi di città, ed insieme il danno collaterale di vanificarne, disperdendole, le lacrime.
Basta.
Domani si vedrà (ci vuol poco, a questo punto: è l’alba. Chi può, serafico se la nanneggi; chi non può – il Nostro, per dirne una – provi, col sapor del fallimento che s’imbratta viepiù con quello della nicotina in bocca, a vedere se la pioggia potrebbe – come per magia, pari a quella del chiarore sorgente laggiù, dietro le macchie fitte e scure – a un dipresso restituirgli la carriola).
***
Trascinato da un’esigenza di conforto e pacificazione, Concetto l’indomani se ne caracollò in chiesa, incappando in una messa funebre.
Esattamente quel che ci voleva per un animo reso dispendiosamente brioso e frizzante dalla veglia precedente: anzitutto in virtù della visione del povero morticino, un bimbetto affatto pronto a quell’immobilità estranea, innaturale, il quale si prendeva la rivincita giocando a far il fantoccino di cera, quasi volesse nascondersi, alla maniera d’uno zefiro birichino, sotto il letto della zia, per fare uno scherzetto ben riuscito; questa volta ci stava sopra, il lettino adatto alla sua scarsa misura, ed esibiva la parte meravigliosamente, segno che la burla riusciva davvero, impeccabile, alla perfezione.
Infatti i partecipanti erano talmente compenetrati nel gioco che nessuno si discostava dall’impegno di isolarsi in cuor suo nella rappresentazione collettiva dello strazio senza senso né scopo, somigliante – avresti detto – ad uno strano e nondimeno affettuoso sogno, commentato dalle smorfie delle lucertole e delle galline attonite, dentro uno spazio imperversato dal suono straniante della campana.
Il prete invece salmodiava lamenti essiccati – probabilmente avvizziti da ordinario consumo – raffermi come tozzi di pane dimenticati in un angolo.
Concedeva più assopimento che auspicato conforto al Concetto ospite, la contingenza, tant’è: (accadon, le cose, non sempre al modo che vorremmo) non rimaneva che l’opzione di adagiar la testa sul banco innanzi, poco poco, un minuto solo. Che ci fa?
Ma scomoda, un’anticchia, era la posizione (un ponte di carne abbondata tra due assi), troppa e acuminata la luce penetrante dalle bifore (dalle trifore: figuriamci!), tediosa la nenia liturgica ruminata dalla vicina (per tacer del miasma sgorgante dalla dentatura rada e guasta); ed allora che ti fo? Cerco rifugio, ecco cosa: diserto ed appartato se ne stava il confessionale a un passo o due – vuoto spazio ideale (che magari i più non intriga e non attrae, eppure da Parmenide e Zenone è confinato nel dominio dell’Essere. È cosa non di poco, Signori).
Entrarvi di sottecchi un attimino, poco poco, un minuto solo… che male c’è? Voilà – vedi? – l’assennata delibera del saggio Concettazzo; giusto il tempo – si capisce – di chiudere gli occhi un istante, di sollecitare ristoro e consiglio al Padrone di Casa – navigato Artefice d’altronde, e Proprietario di parecchi edifici e condominî altri.
S’installò sicché, per bene: in cerca d’un mozzichetto di comodità tra i legni duri, affidando alle fette spaesate del cervello il compito di sonnecchiare a turno, d’appisolarsi in alternanza, d’affondarsi un momentino in ammollo di stupore ardente.
Occorre dirlo? Si può star certi: fu breve la vacanza.
Bussò qualcuno, allo sportellino grigliato. Sobbalzo dunque, trasalimento e caos nella pignatta della capoccia smarrita! Che fare? Che dire? Fuggire? “Morire, dormire. Dormire, forse sognare: ah, c’è l’ostacolo…”? O forse “…più nobile sopportare le percosse e le ingiurie di una sorte atroce, oppure prendere le armi contro un mare di guai e, combattendo, annientarli.”?
– «Mi ’bbenedìca, pàtre…»
– «Eh, caro mio…» – rispondere (o meglio, bofonchiare).
– «Ho peccato.»
– «Ma sai, figliuolo…» – (sofisticando la voce).
– «In particolare contro il settimo comandamento. Non è una bella cosa.»
– «Rubare?» – tossì Concetto, impressionabile alquanto, davanti a siffatte infrazioni religiose! – «E rubare checcòsa? Checcòsa rubare, figlio del Signore?!?»
– «Veramente, io c’ho la specializzazione: sono pratico di attrezzi di lavoro: zappe, vanghe, ma soprattutto carriole.»
– «Ahàh, gran figlio di… peccatore! Le carriòle?!? Che non lo sai che Nostro Signore diventa una ’bbèstia, e ci sanguina il cuore, quando sente queste cose?!?»
– «Non sapevo, Pàtre…»
– «Che c’è ’ppèggio! Cose dei pazzi..! Comunque, caro figliuolo, ora contimi il fatto.»
Gli narrò difatti una storia: il principale protagonista era un destino supremo, corredato di disegni imperscrutabili secondo cui un uomo distratto aveva incontrato un uomo ragionatore. Il ragionatore tempo addietro aveva studiato il distratto, attentamente, risolvendosi a rubargli la carriola, senza difficoltà. Una bella carriola nuova, color verde bottiglia.
– «Aaah! Verde, era, ’à carriòla! Che bella cosa..!» – le corrispondenze principiavano a sfarfallare con viva passione, nella mente fumante di Padre Concetto (e, come ognun sa, il fumo, fa male).
L’uomo ragionatore aveva stabilito – intanto e pertanto – che l’uomo distratto, se era tale, avrebbe continuato ad esserlo: ridipinse la medesima carriola di rosso, e glie la rivendette.
– «Hài capito..! ’rròssa era poi..!» – non più indizi. Certezze.
“Che motivo c’è di lavorare in precarietà, se si può lavorare piuttosto in sicurezza?”, se la pensò l’uomo ragionatore, che disinvolto e leggero qual vapore sottile asportò il vettore un’altra volta all’uomo distratto.
Don Concetto ascoltava, personificando lo sdegno. Se un’apoteosi di piacere l’avesse sbatacchiato, o il vento glie le avesse riempite, le narici non avrebbero potuto dilatarsi meglio.
Indi l’artista (è utile sapere che alle doti di logica e raziocinio quest’uomo aggregava, in ammirevole aggiunta, quelle derivanti da un intimo afflato artistico) verniciò la carriola di giallo. Un bel giallo – non omogeneo forse, ma – scintillante, e la vendette daccapo all’uomo distratto.
E via, e via, allegramente così, per colori (e rinnovate vendite) ventidue complessivi.
– «Adesso sono pentito, ho deciso di riparare i miei torti. Per questo motivo, stamattina stessa, ho riportato la carriola dove l’avevo presa. Mi sento la coscienza a posto, finalmente: una ne ho presa, e una ne ho restituita. Mi benedica, Pàtre.»
– «Senti, figliuolo caro, dove l’hai messa, la carriola?»
– «Eh, ce l’ho detto, Patre, dove che l’avevo presa…»
– «Ka sé se, ho capito… ma dimmi le parole precise: in quale posto ce l’hai messa?»
– «Accanto una fontana, in una campagna qua vicino. Vicino c’è ’na làpa, un poco ammaccata.»
– «Ho capito. Ora vattìnni, figliuolo di ’stu gràn pàru di… cordoni benedetti..!»
– «Pàtre, e la benedizione..?»
– «Ka sè, sè, ’à ’bbenedizziòni di ’sta gràn chièrica…! Vattìnni bèddu, vai. Vai co’ Signore, vai. Prima che me la penso, e ’ù fàzzu ìu, peccato mottàle!»
***
Che fu, un baleno? Anche meno. Via, a rotta di collo, abbaiando, ululando, grufolando per l’emozione! Un cucciolo di stambecco rimesso in libertà, che guizza di roccia in roccia, s’inerpica su pareti verticali, famelico di respiri, di erbe, di pietre puntute, di nuvole, di cieli.
Di corsa verso casa, allora, dove in effetti la carriola c’era. Ridipinta, certamente, eppur là.
Descrivere la gioia intensa del ritrovamento, la commozione, gli abbracci, i baci teneri e commossi, è un’impresa superiore – temiamo – alle forze semplicemente umane dell’Autore (Uomo ad ogni buon conto pratico nei maneggi con la penna). Dovrà rinunciarvi, purtroppo, confidando nell’immaginazione e nella sensibilità del Lettore affezionato.
Non si asterrà bensì dal ragguagliare sul prosieguo, laddove un giocondo cambio di scena s’impose: Concetto tutto contento volle recarsi presso la tomba del papà in permanente villeggiatura autunnale, col pretesto di eseguirvi mestieri di ordinaria pulizia e manutenzione; in realtà per festeggiare in compagnia di un fidato osservatore benevolo il recente, felice ricongiungimento. Ne fu pago e grato, vide che tutto andava bene adesso, che la normalità – tristanzuola, ancorché – aveva ripreso il suo corso.
C’era ad esempio una vecchietta curva che riassettava in bell’ordine i fiori su un’altra tomba e poi si chinava con le mani giunte al petto, in evidente segno di recitar preghiere.
N’ebbe beneficio e consolazione, anche se, a distanza, poté percepirne solo una melodia mesta e soave.
Quando s’allontanò, più sereno e rincuorato, ancora per breve tratto, si lasciò carezzare da quelle parole ormai lontane, indistinguibili.
Che erano:
– «Pezzo di farabutto… cosa fitùsa… maledetto… te la sei filata… con chi me la prendo io ora?»
(Ancient Core feat Irina Mikhailova - Cosmogonic Trace)
[1] Le Muse sono divinità della religione greca. Erano le figlie di Zeus e di Mnemosýne (la “Memoria”) e la loro guida era Apollo. L’importanza delle nove muse nella religione greca era elevata: esse infatti rappresentavano l’ideale supremo dell’Arte, intesa come verità del “Tutto” ovvero l’eterna magnificenza del divino (N. d. C.).
[2] Apecar: veicolo cassonato a tre ruote prodotto dalla Piaggio fin dal 1948 (N. d. C.).
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