LA “PIETRA CELESTE” – di Danilo Cannizzaro

Il giorno in cui il Presidente della Repubblica ricorda che la società civile “…è chiamata a operare per svuotare i depositi di intolleranza, per frenare le tentazioni di sopraffazione, per affermare il principio dell’eguaglianza delle persone…”, vuol propizia coincidenza che i bambini extracomunitari che nei giorni precedenti avevano pranzato su un tavolo a parte – col cibo portato da casa – possono finalmente tornare nella mensa comune, grazie ai denari ricevuti in donazione in una raccolta fondi.

Questa vicenda, che molti ha fatto indignare, mi fa riandare la mente al… solfato di rame.

Cosa che – presumo – potrebbe probabilmente apparire bizzarra se non introducessi il preambolo chiarificatore che tale sostanza – conosciuta anche col nome “Pietra celeste”, e che si presenta sotto forma di cristalli di sale solubili in acqua – un tempo non lontano era usata da pescatori avvezzi a pratiche di pesca illegali. Costoro la spargevano senza scrupoli sotto costa, provocando un tormentato impazzimento dei polpi che, scappando dalle loro tane, diventavano facili prede.

Da qui il fondato assunto che, per far uscire fuori i cefalopodi dal loro nascondiglio (e velocemente) come la Pietra celeste, Signori miei, non ce n’è.

Resterà forse digiuno, l’affezionato Lettore, di congrue documentazione e testimonianza?

Mai sia.

(Leggi, leggi…).

***

 

Racconta qualcuno che il Padreterno – personaggio notoriamente con la testa sulle spalle – si concesse un po’ di riposo, nel settimo giorno della Creazione. Ciò dovette procurargli un certo giovamento, dato che nel giorno seguente fece le cose migliori: quel giorno creò gli angeli più belli e li accostò all’uomo con l’inganno, facendogli credere che le predilette creature fossero stupide.

Domenico ad esempio, non potendo esibire un tesserino ufficiale di angelo in trasferta, si mostrava nelle sembianze di buon diavoletto vispo e sorridente. Aveva lineamenti aggraziati, delicati, e un tal esotico taglio d’occhi osservato il quale nessuno avrebbe scommesso, a prima vista, sul fatto che qui da noi fosse sbocciato in qualità di bimbetto bello, e non piuttosto – in veste di folletto – proveniente dalle ampie steppe [1] dove signoreggiò Gengis Khan.

Appena poteva giocava spensierato il bimbo, più spesso rideva invasato quasi, tanto da provocar sollievi fiduciosi, al sol vederlo trotterellare girin giro.

Ogni sua manifestazione risultava una specie di spettacolo stravagante, che induceva chiunque ad una istintiva reazione come il riso, ovviamente, o il divertimento spontaneo, ma la mestizia ansiosa anche, e la compassione inerme, oppure l’avversione addirittura, l’ostilità, l’odio persino.

Inutile, negarlo: Mimmo, d’essere, diverso c’era, dagli alti bambini; già nelle prime scuole infantili alcuni con lui giocavano volentieri, qualchedun altro invece gli dedicava senza tanti complimenti, con sgambetti e spintoni e sgarberie varie, quel tipo esclusivo di amore insidioso e intransigente i cui segni gli si potevan scoprire sul visetto, a causa di allarmanti contusioni e lividure vistose.

– «Nun c’è ’nnènti che ’ffàri: Mimmùzzu iè comu ’à pètra celesti.» – commentava arrendevolmente crucciato il papà – «Sulu ca fa nèsciri ’n ciànu i còsa vìli, no i pùrpi.» [2]

Impreziosito da nuove graffiature e da bernoccoli aggiornati, lo gnomo prontamente si rialzava, un attimo ristava perplesso, poi il capo cadeva su un lato – come lacrima trattenuta finché poi evade – compiendo le azioni preparatorie ad una insospettabile, clamorosa, trionfante risata.

 

***

 

Crebbe – non molto in statura, per vero – a dispetto di busse, pestatine, sorgozzoni e calci là, e divenne un piccolo ometto, servizievole e gentile, ogni volta pronto ad allietar papà e mamma anziani e compagnetti con uno scherzo, una battuta, un’imitazione spiritosa: tutta mercanzia disinfettata da cupezze; stoffe da indossar con una strizzatina d’occhi furbetta e complice; panni leggeri, insomma, come l’aria quand’è tersa e di sé non sa, né lo sospetta.

A scuola pure era diligente e ammodo – si vorrebbe dir studioso – se si riconosce la schietta nobiltà del metodo di ingegnarsi a far scorrere sul quaderno a quadretti inchiostro irregolare, condensato in modo che un giorno scuoterebbe la coscienza del mondo o forse donerebbe una specie di fede ai rifiutati; ma nondimeno ed anzitutto quella dell’esercizio di voltar le pagine del libro senza per questo approfittarsene serbando la memoria di aver letto una sola riga.

Non v’è chi possa giudicar scarsa, siffatta degnità, considerando che viceversa le bollicine della gazzosa gli promettevano ricordi durevoli ancor più, mormorandogli discorsi incantevoli a volte, preoccupanti un minimo, talaltre.

– «Salgono, salgono, le bollicine..! lo vedi? Risalgono comode» – faceva Mimmetto, strabiliato sempre – «Pare che ce l’hanno facile, il viaggio…»

Riconosceva ad orecchio, in realtà, la strada verso quel Suo Amico che fabbrica tuoni e maltempo, se triste, venti spiritosi che fanno il solletico alle orecchie, e risolini di cuccioli che puncicano l’ombelico, se l’umore è buono.

– «Non mi dite niente:» – bisbigliava la mamma – «Mimmo mio è una forza della natura.  come avrà fatto a riuscire una testa così non me lo so spiegare nemmeno io. Alla fine, non è che gli abbiamo insegnato nulla di sostanzioso…» – mentre il papà faceva mute spallucce, privo dell’energia accessoria per comprendere la sua soddisfazione inascoltata.

Insieme crebbe tuttavia, il numero delle villanie e delle offese a lui rivolte.

Chissà, doveva forse trattarsi di quel genere di attrattiva che esercita l’impunità, l’assenza di dazî immediati da pagare, l’incapacità – da parte di coloro ai quali non par vero molestar senza conseguenze chi vuol soltanto giocare eseguendo numeri di piccola destrezza sulla corda della vita – d’accettare che il piccolo saltimbanco non sceglie, difendersi.

E più duro battevano quelli sulla bella capoccetta dolorante, più sangue gli facevano uscire, più forte lui rideva:

– «Se crede che io capisca la ragione,» – rispondeva comicamente minaccioso, passando al “lei” dal “tu” – «si sbaglia di grosso!» e con una stretta di mano, un sorriso aguzzo, un inchino, due giravolte danzanti e un buffo levar di cappello mimato, saltellando s’allontanava, quindi, come imperturbato risolutore d’una serie di enigmi disseminati in intricate avventure vissute all’interno d’una caverna segreta.

Un giorno, tra uno spasso feroce e un passatempo crudele altro, te lo ammaccarono e te lo conciarono a tal punto, che da un occhio non ci vedeva più per il sangue colante; questa volta Domenico ci restò incredulo, stupito, in silenzio sicché  raccolse in fretta le sue acciaccature e se ne tornò zoppicante alla volta di casa.

“Se fischio una canzone allegra il dolore si mette paura e se ne va.” – pensò.

Infatti così fu.

Peccato che con la pena gli svanì quel poco d’odor di casa che nel naso gli durava qual bussola sicura da ogni smarrimento.

Traballò presso d’un fosso anche l’altra gamba sana, giù vi cadde a peso spento come un lumicino col respiro ormai interrotto.

(Che ti vuoi meravigliare? Troppo a lungo indugia accesa, poi si spegne, la candela).

Lo cercarono per giorni.

Se ne andò una settimana, nella quale il suo papà trascorreva le campagne minacciando arbusti e macchie di vendette straordinarie, attenuate solamente dalle lacrime materne.

I compagni della scuola stabilirono ricerche, molto dandosi da fare.

Se incontravano quel padre sconquassato nella mente gli prestavano conforto, ricevendo unicamente tetri ringhi in pagamento.

Nell’ottavo giorno delle ricognizioni scoraggiate – e fu un caso, un imprevisto – uno dei balordi che con maggior godimento aveva picchiato, ebbe di netto il fiato tranciato, avvistandolo nel canale.

Gridò allora forte e invano il terrore suo citrullo, sino a che Mimmuzzo pesto e scorticato se la filò nel buio, non prima di rivolgergli quel gesto buffo di cavarsi il copricapo.

 

***

 

Scimunito, in effetti, c’era anche prima: magari non serve cercare altrove il motivo per cui gli destinavano poco o nessun affidamento, quando raccontava d’aver ricevuto in sogno la visita di Domenico, che con gran cortesia pregava lui e i compari animali difettati di perdonarlo per averli presi in giro fingendo d’esser scemo, allo scopo di non metterli troppo in imbarazzo.

In sostanza, non lo facevano all’altezza, di far sogni così e cosà.

Semplicemente non gli credevano.

Il tizio, però, a un bel momento se ne fottette: ogni tanto usciva per andare a riscuotere gli utili e gli interessi, costituiti da banconote di follia in piccolo taglio e spiccioli di versi poetici.

 

(Al-Pha-X – First Transmission)

 

[1] La Mongolia è uno Stato dell’Asia orientale. È privo di accesso al mare e confina a Nord con la Russia e a Sud con la Cina. È nota per le ampie steppe e la cultura nomade. Gengis Khan venne proclamato Gran Khan, cioè khan di tutti i mongoli, che sotto di lui avevano trovato un’unità nazionale. Da allora fu noto come “Genghiz Khan” ovvero “Signore Universale” (N. d. C.).

[2] “C’è poco da fare: Domenico è come la pietra celeste. Però fa venire a galla i balordi, non i polpi” (N. d. C.).

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