LE CASE DI KAFKA – di Dino Buzzati

mercoledì 31 marzo 1965
 
 
Praga, marzo – Di passaggio a Praga, mi venne la curiosità di vedere i luoghi di Franz Kafka.
Da quando ho cominciato a scrivere, Kafka è stato la mia croce. Non c’è stato mio racconto, romanzo, commedia dove qualcuno non ravvisasse somiglianze, derivazioni, imitazioni o addirittura sfrontati plagi a spese dello scrittore boemo. Alcuni critici denunciavano colpevoli analogie con Kafka anche quando spedivo un telegramma o compilavo il modulo Vanoni.
Tutto questo da molti anni ha determinato in me, nei riguardi di Franz Kafka, non un complesso di inferiorità ma un complesso di fastidio. Da allora non ho voluto più leggere cose sue, né biografie, né saggi che lo riguardavano. Ma qui a Praga sarebbe stata una viltà di fronte a me stesso se non avessi cercato la sua ombra: esattamente l’attrazione – diranno i cari amici – che induce il criminale a tornare sul luogo del delitto.
Certo avrei preferito fare questo pellegrinaggio in incognito. Ma avevo pur bisogno di una guida. Chi poteva essere?
A Tatranska Lomnica, negli Alti Tatra, avevo conosciuto una sera il signore Emil Kacirek, persona molto colta, poliglotta, di intelligenza singolarmente sottile che lavorava a Praga in un ente pubblicitario internazionale. Oltre il ceco, il francese, il tedesco, lo spagnolo, l’inglese, il russo, il polacco, l’ungherese, lo sloveno e l’indi, conosceva benissimo anche l’italiano e aveva letto un mio libro. Anche lui una volta scriveva, fra l’altro collaborando a una rivista come critico letterario, poi aveva volutamente smesso, e citava l’esempio di Rimbaud.
Come seppe chi ero, mi abbracciò e con affettuosa insistenza mi costrinse a giurare che, se fossi passato da Praga, mi sarei fatto vivo. A qualsiasi costo avrebbe lasciato il lavoro per farmi vedere la città. Lì per lì non gli feci domande precise ma era chiaro che se esisteva uno il quale doveva conoscere vita, morte e miracoli di Kafka, quest’uno era Emil Kacirek. E, sicuramente, della vertenza tra Kafka e me egli era all’oscuro.

Bene. Arrivai a Praga ch’era notte inoltrata. Il mattino dopo telefonai al numero che il signor Kacirek mi aveva dato. “Prego, aspetti un momento”, rispose una donna. Si udivano confuse voci, porte che si chiudevano, battito di macchine da scrivere. Quindi una voce diversa, pure di donna: “Il signor Kacirek? Aspetti che vado a chiamarlo”. Dei passi che si allontanavano. Lo scatto di un commutatore che probabilmente smistava una linea. Infine parlò un uomo: “Il signor Kacirek verrà solo verso le dieci”.
Ritentai alle dieci e dieci. Ancora una voce di donna: “Prego, aspetti un momento”. Una pausa, passi che si allontanavano, lo scatto di un commutatore, il silenzio. Pareva che la comunicazione fosse stata tolta senza che dall’altra parte avessero messo giù la cornetta (poi mi spiegarono che a queste misteriose eclissi telefoniche quelli di Praga hanno dovuto ormai fare l’abitudine).
Provai altre due volte con lo stesso risultato. Allora presi un tassì e mi feci condurre all’indirizzo stampato sul biglietto da visita. Corrispondeva alla Camera di Commercio. Entrai in un androne dove a sinistra una bacheca di legno e vetri conteneva due anziane telefoniste. “Prego, il signor Kacirek”. “Prego, un momento”, fece la più vecchietta e, fatto un numero interno, borbottò qualche parola in ceco. Poi subito a me: “Il signor Kacirek sta attendendola nella hall dell’Hotel Palace”.
E poi dicono che sono io a imitare Kafka. È la vita, direi. Né al telefono, né alla Camera di Commercio avevo detto chi ero. E avevo parlato in tedesco, stentato fin che si vuole, ma tedesco. Come aveva dunque fatto a sapere, il signor Kacirek, che io ero arrivato a Praga e che lo avevo cercato? Apparteneva forse a una tenebrosa organizzazione che controllava minuto per minuto gli spostamenti di tutti gli stranieri presenti in Cecoslovacchia? O era semplicemente un mago?
L’episodio, comunque, prometteva bene. Se tanto mi dava tanto, il signor Kacirek come minimo mi avrebbe procurato un abboccamento col leggendario Golem. In quanto a Kafka sarebbe bastato da parte mia un fugace accenno, senza compromettermi, affinché il signor Kacirek, spontaneamente, mi seppellisse sotto una valanga di informazioni inaudite.

Il messaggio riportatomi era esatto. Il signor Kacirek mi aspettava nell’atrio dell’Hotel Palace. Ma con espressione desolata. Purtroppo, come unico conoscitore della lingua indi in tutta Praga, era stato ufficialmente incaricato di accompagnare a Marienbad un gruppetto di importanti turisti indiani. E doveva partire immediatamente. “Che peccato, che peccato”, diceva. “Sono dispiaciuto come lei non può neanche immaginare… E pensare che apposta per lei avevo preparato un piccolo itinerario speciale… Sa? i luoghi, le case, i ritrovi dove è vissuto Kafka… Per lei, caro Buzzati, sarebbe stato interessante, vero?”.
Non risposi. Lo salutai ringraziando. Dal tassì mi feci condurre all’Ambasciata d’Italia, in Maia Strana. Là avrei avuto certamente utili indicazioni. Infatti l’amabile cancelliere nel giro di dieci minuti mi fece incontrare il professore Domenico Caccamo, direttore dell’Istituto italiano di cultura, la persona autorevolmente più qualificata.
Il professore Caccamo, specialista di storia polacca, boema e ungherese, è un giovane cordialissimo e pieno di vita. Parve felice di farmi da guida. Aveva giusto alcune ore libere, con la sua auto mi avrebbe portato a vedere le cose più belle.
Compagnia più gradevole non potevo sperare. Ma avrei preferito, forse, persona meno informata di letteratura italiana. Con lui, per quel complesso di fastidio che dicevo prima, non feci parola di Kafka. Doveva essere l’impiccato a parlare, per primo, di corda, in casa sua?
Senonché, quando si stava per arrivare nella piazza della Città Vecchia, Caccamo fermò la macchina di fronte alla chiesa di San Nicola. “Non so se le possa interessare”, disse indicando un dignitoso edificio di colore grigio. “In quella casa, al primo piano, è nato Kafka”. Non sorrideva. Nella voce non ombra di ironia. Io tacqui. La casa, di gusto barocco, è a tre piani, più un coronamento di elaborati abbaini. Forma angolo tra la via Kaprova e la via Maislova, e porta il numero 5. Faceva freddo ma era una giornata di sole.

La indimenticabile scorribanda su e giù per una delle più fantasiose città della terra durò oltre quattro ore. Ma di tanto in tanto il professore Caccamo faceva: “A proposito…”. Così dicendo fermava la macchina, abbassava il vetro e tendeva la mano. “In quella casa, se mai le interessasse, dicono che abbia abitato Kafka…”.
Così di fianco alla chiesa di Tyn, in via Tynska, dove sorge una vecchia graziosissima bicocca che porta il numero 7, così di fianco al Municipio dove sorge un antico palazzo con strisce di graffiti a soggetto mitologico. “In quella casa dicono che abbia abitato Kafka”. Così nella Bilekstrasse, così nella Langengasse, così nell’incredibile strada d’Oro o degli Alchimisti, dietro la cattedrale, fatta di abitazioni giocattolo altre due tre metri, uscite dal sogno di un bambino, così nella strada che scende dalla collina di Strachov e in una quantità di altre strade, viuzze e vicoli che non facevo in tempo a segnare. “Dicono che…”. E non sorrideva. “Se mai le interessasse…”. E non ombra di ironia nella sua voce.
A un certo punto chiesi: “Ma aveva il dono dell’ubiquità, questo Kafka? Possibile che in quarant’anni di vita abbia abitato tante case?”. Caccamo rispose: “Il fatto è che Kafka, qui è stato scoperto appena due anni fa. Prima nessuno sapeva che fosse esistito. Poi è stata una mania. Oggi le case, vere o false, in cui avrebbe abitato Kafka, sono centinaia. Come, nell’Italia settentrionale, i letti in cui ha dormito Napoleone”.
Scherzava? Mi prendeva elegantemente in giro? Ironizzava sulla iettatura kafkiana che mi accompagnava? Parlava sul serio o era stato, in tutte quelle notizie, un fantasioso buontempone?
Il mattino dopo, prima di partire, corsi a cercare una guida professionista e diplomata, del luogo, la quale di me non potesse sapere niente. Venne la signora Jirina Klenkova, sui trent’anni, graziosa, moglie di un avvocato, che parlava un italiano imbustato ma esatto: preparatissima. “Che cosa desidera vedere?”. “Kafka”, dissi esasperato, con lei potevo parlare a cuore libero. “Tutto quello che riguarda Kafka”.
E la signora Jirina Klenkova, con precisione meravigliosa, mi portò a vedere dove Kafka era nato, dove Kafka aveva studiato, dove Kafka aveva passato l’adolescenza, dove Kafka era solito passeggiare, dove Kafka aveva lavorato come impiegato delle assicurazioni, dove Kafka si ritirava a meditare e scrivere, dove Kafka qui dove Kafka lì, non so più quante case; e tutto corrispondeva preciso alle indicazioni di Caccamo, il quale evidentemente la sapeva lunga e aveva finto di scherzare ma scherzato non aveva.
Solo che alla fine la signora Jirina Klenkova mi propose ciò che il professore Caccamo può darsi avesse avuto l’idea di propormi ma forse non mi aveva esplicitamente proposto per non farmi dispiacere. “Vuole che andiamo a vedere la tomba?”. L’ultima sua casa.

Il cancello del cimitero ebraico di Praga Staschnitz era spalancato, alle undici del mattino. C’era un alto muro di cinta, un discreto freddo, il silenzio, non anima viva. Lo schieramento dei sepolcri, tutti a stele verticali, in tante file, era a perdita d’occhio. “Di qua”, disse la signora Klenkova incamminandosi a destra lungo il vialetto compreso tra il muro perimetrale e il primo allineamento di morti. La neve, secca, scricchiolava sotto i nostri piedi. Leggevo nomi e nomi di gente che non esiste più, Kornfeld, Pollak, Stein, Rosenberg, Loewit, Strauss, Freud, Weiss, Goldsmith, Loewy, Rosenbaum e così via. Non anima viva. I passeri affamati cinguettavano qua e là. Era una giornata, ricordiamolo, di pallido sole.
La tomba di Kafka è diversa dalle altre. Non è una tavola di granito bensì una stele a sezione esagonale, rastremata in cima. È pietra grigia, butterata come il travertino. Faceva freddo. In alto si legge: “Dr. Franz Kafka, 1883-1924”. Sotto, il padre: “Hermann Kafka, 1854-1931”. Più sotto ancora, la madre: “Julie Kafka, 1856-1934”.
Dinanzi alla stele c’è un piccolo spazio quadrato chiuso da una cordonatura. In questo spazio, un vasetto di vetro rotto, infossato di sbieco nella terra, tre vecchi fiori apparentemente finti e alcune frasche di abete appiattite dalla neve che ormai non c’era più. Silenzio grande. E solitudine. Sul bordo, tanti sassetti. “È l’omaggio degli ebrei ai loro morti”, spiegò la signora Klenkova. “Sassetti a due a due. Il ricordo dell’antico deserto. Mosè. I morti seppelliti nella sabbia e, sopra il mucchio di sabbia, qualche pietra. A indicare che sotto c’era un morto”.
Dietro la tomba un allineamento di alte pietre nere voltava le spalle. Andai a vedere. “Vilem Kafka, ufficiale, 1862-1932”. “Julie Kafkova, 1860-1938”. “Rudolf Herz, Eduard Herz”. “Karolina Margoliusova – Salomoun Margolius”.
“Scusi, signore”, chiese la signora Klenkova. “Lei sta facendo uno studio su Kafka? Nessun turista italiano mi ha mai chiesto notizie di Kafka. Lei è il primo. Sta studiando Kafka?”. “No”, risposi. E le spiegai la faccenda.
La gentile signora Klenkova scosse il capo, in segno di comprensione. Sorrise con la dovuta malinconica. “Capisco”, disse. Poi con la destra fece cenno a Kafka che dormiva là sotto. Appena appena sorrise: “Lui però non ce n’ha colpa, vero?”.
Un grasso corvo si posò in vetta alla stele di Yehuda Goldstern, 1896-1941. E col becco cominciò a ripassarsi le piume lentamente.

 

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