DICHIARAZIONI – di Danilo Cannizzaro
Dichiarazioni
(il tempo delle melo-grane)
Bah… Che posso dirti..?
Dev’essere questo tempo meteorologico mattacchione.
(Per forza).
Fatto sta che in questi giorni fioccano, come farfallette (più o meno gentili), una sfilza di dichiarazioni di enorme rilievo.
Riguardano: amori che nascono (principessini contro principessine del rutilante mondo del gossip), amori che finiscono (fra personaggi della TV e ministri della cosa, là, come si chiama… non mi viene il termine… della Repubblica), amori che potrebbero minacciare d’estinguersi (ancora fra ministri della cosa), amori mai decollati (riciccia fuori persino la dichiarazione del tizio al quale “…fanno schifo come i ragni” gli anziani, i bambini, i down).
Dev’essere periodo. Tipo che c’è la passata, come per i tonni, i pescispada.
Roba di fenomeni che si verificano nell’atmosfera e loro variazioni.
Sbucando fuori il capino da una montagna di carte varie, mi sono ritrovato attaccato all’orecchio un’altra dichiarazione.
Prima te la mostro…
***
Per favore, vieni qui da me che ti chiamo.
Ti devo dire una cosa importante!
Importante quanto il fatto che io ti senta accanto, anche se non ci sei veramente, con tutte le tue cose al solito posto, e cioè i tuoi occhi, le tue mani, il tuo odore (che sembrano cose piccole e a portata di mano, ma è roba capace di spostare un orizzonte intero. E sai che ti dico? A me, lo spostano).
La cosa che ti vorrei spiegare – guarda – è che quando mi sono innamorato di te, non ti ho visto per come eri fatta.
Credo di aver percepito invece come ero fatto io quando mi sono sentito come racchiuso all’interno di una carezza fatta a due mani insieme, nel momento in cui – e quanto si stava bene, in quel sogno che accadeva da svegli! – mi trovavo a scrivere delle cose, e mia madre mi scivolò accanto come soltanto le mamme e i fantasmi sanno fare: c’era sullo schermo un piccolo affare nero, che perfino attualmente si chiama puntatore del mouse – ma la mamma non poteva saperlo, a quell’epoca, e, sinceramente, suppongo non lo sappia neanche adesso – e lo uccise.
(Ce l’aveva stampata nel quadro, una laurea prestigiosa, però col puntatore, niente, non fece mai ravvicinamento: nei suoi tempi migliori sarebbe stata, decisamente, una sconvenienza).
Ebbero in comune la stessa posa, lei e Diana cacciatrice: pie’ fermo, fronte indomita, respiro gagliardo.
(Ci scommetto la testa: avranno tecnologie migliori, Dove lei abita, questa volta).
Ma non è questa la cosa importante.
La cosa importante da sapere è che a mia madre, quel puntino, dovette sembrare una specie di insetto che certamente non poteva non dar fastidio a suo figlio, per cui, il suo corretto istinto le comandò di fare l’unica cosa necessaria: tirare un colpo di straccio all’insetto screanzato.
Ora, se qualcuno sguscia all’improvviso alle mie spalle e spara un pestazzone nel punto in cui sono tutto concentrato, ho motivo di credere che non mi viene di rasserenarmi di colpo, come per magia… eppure, là per là, la guardai bene bene negli occhi trionfanti, poi considerai i pixel che si torcevano penosamente, infine riportai lo sguardo su di lei, e dato che non mi usciva altro, le dissi:
– «Ah. Mi rendo conto, mamma.»
E oggi so che era una cosa buona.
(I pixel vanno e vengono, le mamme, si sa – a Dio piacendo – sono più stanziali).
***
Ecco, quello che ho da chiederti: vorrei chiederti, se – gentilmente – puoi essere un giro ancora come mia madre alla quale non mi veniva in mente di chiedere “Scusa”, “Permesso”, “Per favore”, mentre – una volta – aspettavamo insieme qualcosa (o era qualcuno? Figurati se me lo ricordo. Tanto non cambia, la questione) ed io avevo le mani impicciate. Allora era normalissimo lasciare di fretta, con scarso garbo forse, il mio giubbotto e altri oggetti sul suo grembo paziente, perché avevo da spicciare qualche faccenda che per me era più urgente di lei e delle sue urgenze.
Quando sei indaffarato, del resto, non pensi alla circolazione del sangue, al sistema linfatico o alle altre rotelle che girano dentro il marchingegno perfetto.
***
Ti devo spiegare il fatto che quando penso a te, mi viene voglia di rifugiarmi in un posticino della mente dove ritrovo quel che non so chiamare con un nome diverso da “la mia famiglia”.
(D’accordo, è una famiglia molto segreta, ma non per questo più scarsa).
È davvero curioso, che a volte mi dimentico completamente di questa famiglia, di questo delizioso modo di stare a casa.
La verità? Mi dimentico molto spesso di me.
Addirittura faccio di tutto – lo so, lo so – per dimenticarmi di pensare a quanto mi manca la mamma, e a quanto mi manchi tu – che vorrei fossi un’altra volta mia madre – già quando ci sei (e sei concentrata a far altro) figurati quando non ci sei.
***
Vedi? Io l’ho capito, quel che mi serve.
Mi serve fare un bel giro, una bella scorribanda nei nidi e nelle tane dove non sono adulto, responsabile, sveglio, ma sono un ragazzetto al quale la mamma accosti le labbra sulla fronte per far finta di voler capire quanta ce n’è di febbre (non ce n’è… non ce n’è, ma brucia come se).
E comunque è bello pure quando non c’è propriamente la febbre che fa arrossire i termometri, perché in realtà quel che sento bruciacchiare è lo stesso sintomo della malattia che mi piace assai: quella che mi permette di esser curato da te con niente, con due parole consuete di casa, una presa in giro, limature di sorrisi, raschiature di sfottò (Ah! Che scienziata!), rimasugli di salive amorose, altre candide sconcezze, qualche grata e dolce fesseria.
***
(Io non sono molto convintissimo che questa cosa l’abbia scritta *. Secondo me ci può essere un errore. In ogni modo mi sembra meritevole d’esser conosciuta.
Alla fine, a ben guardare, non è una cosa che appartiene a lui, a questo punto, ma più conviene a me, a te, a quell’altro amico mio.
No..?).
(Air – All I Need).
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