(DICE CHE) IL POSTINO SUONA SEMPRE DUE VOLTE – di Danilo Cannizzaro

(Dice che)

Il postino suona sempre due volte

 

Tu mi chiedi che cosa ne penso. E te lo dico, che cosa ne penso.

Apro il giornale e leggo: “Madre uccide i due figli e poi si suicida”; “Uomo spara al figlio della compagna e poi si suicida”; “Finanziere uccide moglie e cognata e si suicida”.

Penso che manco ci fa caso, uno, percorrendo una strada abituale, alle persone che in una qualunque giornata gli sfilano davanti. Come fossero irrisori dettagli di contorno al paesaggio, nulla più.

Eppure, ove mai capitasse di rimanere invescati, per qualche motivo, in una storia d’altri, potrebbe accadere di ritrovarsi aggrovigliati in realtà di cui non si sarebbe nemmeno lontanamente immaginata l’esistenza.

Corrono – e scorrono così – sotto sguardo distratto e assuefatto le vite altrui, comparabilmente alle formichine, tra le quali quella che sta in testa alla fila non prevede affatto le condotte di quella in coda, ma esse – si badi bene – son tutte intruppate entro la stessa orda guidata dalla pesta di acido formico, che fa loro da ufficiale di rotta.

 

***

 

Accade, talvolta, che il meccanismo si muova non in maniera consueta: una mattina infatti capitò la faccenda del tizio che squilibrò i sensi un po’ a tutti.

(C’è modo e modo persino di fare una brutta fine: quando l’albero del sandalo vien reciso, la lama che lo ha straziato, resta profumata. Ebbene, ha dello stile, questo signor Sandalo).

Cionondimeno.

Iniziamo dal momento in cui un temporale mirò a puntino la schiena di Rosario, e lì vi si abbatté.

(Non solo sulle sue, in verità, ma viene bene inquadrare la cosa dal punto di vista del Nostro, altrimenti, malauguratamente si perdono certe sfumature emotive, che servono, alla narrazione – servono, servono. Lettore, sono l’Autore io: lo saprò, no..? lasciati pregare).

Qui e là alcuni osservanti di Dio e delle cose buone e pie principiarono a correre – così, alla “Viva il parroco!”, per infusione d’istinto; altri, preoccupati, si guardaron le scarpe, per scoprire se il livello della pioggia era entro il limite di guardia o si accingeva a valicare gli argini valutati del genere dei regolari; l’odore d’impasto d’ozono e fanghiglia smossa invadeva la via, e trovava fertile terreno per automatizzati smadonnamenti e differenziate amene sconcezze; gruppetti – gregge impaurito – responsabilmente gattonarono alla cerca di riparo sotto tende o balconi di fortuna; piccole formazioni, in aggiunta – colonia di ricci di mare abbarbicati allo scoglio – ancorarono le spalle su improbabili rientranze; e rimanenti individui – gechi gechi gè – si allipparono appiattiti sui muri.

Zufolarono gonfi di pressione e di torrefazioni inesatte numerosi i caffè nei bar; rinverdironsi i macallè [1] di nuova blandizia calorica (nati ore prima, al tepido lumeggiar di un’alba ignara, in quest’ora fatale conoscevano una nuova – finta – giovinezza) al tempo istesso che sfranti babà promettevan rum delle Antille o delle Barbados o delle Canarie sebbene mantenessero, a dirla schietta, un’acquazzina vagamente dolcificata e corrotta con criterio amatoriale – nonpertanto indecente; autovetture lanciarono onde anomale d’acqua traditrice al lor veloce passaggio screanzato, subito raggiunte da melopee d’insulti e schifi sinceri dal petto degli inzaccherati traditi e inermi; una milonga raminga di gesti e scatti a perdere (tanto, si sa, che qualcosa andrà ormai storto – ritardato quanto meno, rovinato a causa dell’intoppo meteorologico, tutte belle cosette da avverbiare con: “irrimediabilmente”) e lamentazioni becerotte, ma addirittura dotte, talune – eh, bèh, sì – da parte degli eruditi sulle cose della natura, delle logiche geopluviali, dei segreti del cielo, tetto ora zuppo e curnutu (più o meno hai presente l’arbitro di domenica scorsa per la partita di Promozione Girone D, F ? – o lettera alternativa non ci si ricorda, ché c’è il fatto predominante che per ora ’U Patretèrno la sta buttando giù a tutta forza – pazienza, non è quello il punto) coreografò (si diceva: la milonga raminga) cose e soggettacci, elementi sani oppur guasti tutt’intorno, signor mio, intanto che a via di smargiassate rumorose tuoni e fulminacci ribadivan lor importanza e identità perché nessuno avesse a dubitarne (oh, bèh!); casuali litiganti si contendevano esigui spazietti all’asciutto scambiandosi botte di: “Ma insomma, e che sistema è?” ovverosia “Non c’è bisogno di ammuttàre,[2] si stàsse bello calmo!” al posto di franchi e autentici schiaffoni che preferivano con sussiego non distribuirsi per tema di riceverne parificato corrispettivo in cambio, mentre “La terra ci fa bene: ogni tanto deve bevere pure lei in abbondanza, caro mio!”, “Che ci vuole pure, che l’aria si arrifrèsca!”, “Tanto lo sapèmo che non dura assai; certo, accamòra [3] è un rompimento..!” a turno facevano più tizi in un coro armonizzato dall’appartenenza ad un trito comune immaginario pret a portèr.

Ma tutto questo macchinario per qualcheduno è guadambio (altresì) & vantaggio: vedi “Le signorine”, vale a dir la coppia di zitelle che da quarant’anni sbroffegliano e smanicordìano attività paragonabile a un compendio insincero di simil-bar/fiaschetteria/bistrot/bazar/mescita-abbeveratoio ed aggiuntive ristorevoli finezze nella ristretta tana incastonata in fronte alla facciata della chiesa la quale, per parte sua, che può farci? – niente, ci può fare.

(Schiatteranno, prima o poi, le vecchiacce secche coi mille spigoli gretti (e in ciò finanche, si dice: “la forza della Fede”).

Piove. Certe volte piove, è necessario, è noto. Così è. Stùïiti ‘ù mùssu, [4] e basta più.

 

***

 

Quando ormai da un tot era fermo ad ipnotizzare mediante possenti esercizi mesmerici [5] la sigaretta che sputacchiava fumacchietti indecisi se rinvigorirsi o per sempre (¡adiós, mundo cruel y amargo!) perire, venne voglia a Rosario di sospendere il terapeutico accanimento rivolto alla rianimazione della cicca accidiosa, e mettersi a contare quante volte il tale che s’era ritrovato accanto per l’umida contingenza proferiva “Porco questo – porco quello!”, e quante, in alternanza scrupolosa, metodica, professionale, pensosamente adduceva calcolati interventi alla sua igiene orale per mezzo di un temperino, provocando moti di ripugnanza nei pellegrini occasionali in busca di chimeriche asciuttezze.

Ma presto dove’ desistere, a motivo che, per un verso, troppo tardi aveva iniziato – similmente a quando di notte si vuol stabilire l’ora rincorrendo i rintocchi del campanile, e non è sicuro se s’è cominciato per tempo – e, d’altro canto, il tal medesimo – gli occhi cerchiati in nerofumo forse da sentimenti ineffabili di licenziose malinconie – sfogliava in complicato contegno una ufficiale gazzetta sportiva nei cui meandri nascostamente abitava (vide, Rosario; distintamente: percepì) separata rivista colorata, la contemplazione abbagliata della quale l’uomo evidentemente per sé solo volea serbare – ad esclusion d’occhi impiccioni (chissà, pronosticando incontrollate e sontuose notturne polluzioni all’interno d’un magico circo di nanne infantili e – tutto sommato – innocenti), lasciando disperdere all’esterno strizzate d’occhio sbrigativamente eloquenti.

Qualcuno cantava canzonette votive sul tema “Ora scampa, ora scampa…” in omaggio al cielo che senza preavviso si rabbuiava e scolorava a capriccio, passando dai grigi tenui a quelli tetri e densi e in seguito – se memoria non inganna – minacciosi e protervi alquanto nel minuto in cui Rosario e il Tale facevan ancora misurato commercio di perspicaci strizzate d’occhio riassuntive, allorché un fischio maledetto trapanò i cuori e le menti d’uomini e cose, irretiti all’unanimità dalla visione d’un loro concittadino che volò (e volava, e volava, e pareva non voler smettere più di volare) certamente persuaso dall’ispirazione profonda data dall’esser investito violentemente da un camioncino sprovvisto di qualsivoglia conformità alla circolazione su strada (ma ciò non interessa, al presente: non è che il male minore, codesto: se il concittadino ci lascia la buccia, allora sì che son guai neri e veri).

Anche se plausibilmente la cosa avrebbe assunto un suo fascino commovente, non volò però in eterno, colui, poiché si vide imprendere il tratto decrescente della parabola magnifica.

Cadde, (e cadeva, cadeva, pareva non voler smettere più di precipitare – ma, benedett’uomo, lo capisci da te che non è possibile, eh, via..!) arrestandosi poi di botto nello schianto col suolo, rammaricato questo, quantunque inanimato bitume deforme, dell’incresciosa occorrenza.

Orrore e smarrimento: la fiumana di buoni magari a qualcosina amalgamati con buoni a nulla, dopo uno spurgo fisiologico d’urla strepiti e schiamazzi d’ordinanza si scaraventò all’epicentro del fenomeno terribile, e intonò una babelica gazzarra inutile quanto molesta.

Ivi s’incontraron lingue e parlate sconosciute ad essi stessi tutti, che prevalsero di buona misura sul rombo del tuono intimidito e, per questa ragione, ritiratosi col fulminino tra le gambe; non bastò: il cielo si schiarì, incuriosito, per vederci meglio, ritirando ogni minzione pleonastica, inopportuna invero, ed al nuovo chiarore apparve che il recente trasvolatore di piazze, commosso – va circostanziato – sbatacchiava ciglia e sopracciglia preda del disordine mentale più effervescente, ma proprio per questo, e per il dimenar scomposto delle restanti parti della figura sua complessiva, si presentava in buono stato, buonissimo, visto che nella vita precedente non aveva mosso con tanta spigliatezza e vigoria arti e frattaglie collegate – queste almen –, non certo le rotelle della cocuzza scombinata e spersa.

– «E che è successo mai?» – pietoso questuava ad astanti ed assenti – «Che cos’è il fatto? Me lo volete dire, per favore?»

Ne ricevette, eccome, di risposte; Dio mio, una, una sola pertinente, attendibile, assennata!

Calmata – piano piaaano – l’eccitazione della folla bestia ci fu chi gli recò caffettino, cognacchino, vermuttino, parole di coraggio, parole di miele (una signora inoltrò parole all’orecchio che non sappiamo. La si direbbe smorfiosa, attese le movenze sciuè sciè e sciantoselle anzichenò) e parole di monito.

Alla fin della fiera, egli si rizzò in piedi e costà stabile si mantenne. Mani strinsero le sue, pacche convergerono sul groppone (sempre il suo), sollievi diversificati aleggiaron sospinti dal sospiro poderoso della mandria or rasserenata ma ancor protagonista irriducibile; lazzi fioccarono e scongiuri volteggiarono dietro le quinte.

La terra infine tornò nella pace e all’abitual supponenza vana, una volta che la rotazione intorno al suo asse aveva ripreso il corretto abbrivio, oh benedettoidDìo, talché i bravi compaesani diedero stura alle fiaschette proprie bagnando l’avvenimento con siffatte salve in contrappunto:

Animalo risvegliato, certo ha l’animo dannato.

L’ultimo scecco che morde, più ne sa del merlo e della sarda.

A Gennaro cantante non si guarda in gola.

Se il diavolo ti bussa a casa, la vescica ne è persuasa.

Quando passa San Martino, appòi il mosto si fa vino.

Non ti cresce di una spanna, la fusciacca della nanna.[6]

E consimili sapute eccellenze di espansa salacità germinate nell’imo della sapienza isolana, intonate a cappella, dal vivo.

Basta.

Si torna all’opre solite, alla vita annoiata e stolta e grata. Si levan le tende; quattro sono le tue, quattro sono le mie; il cuore è bagnato nello zucchero; la magnesia è fresca; scimunito ci sei, a casa lo sanno e son contenti; fuori piove e dentro spanna; la carne è meglio del pesce.

Rosario; nel frangitempo; non aveva ancora realizzato lo story-board (come dice quel bamboccione del carnezziere nemico d’ogne ortodossia, ignorantissimo e nondimeno esterofilo) completo della storia in esame. Tenutosi riguardosamente in disparte fino allora, volle avvicinarsi al miracolato che aveva frattanto guadagnato l’aire del ritorno: perbacco, così, per complimentarsi, solidarizzare, per dir un motto buono, virile, generoso.

 

***

 

Alle volte, quanto occorre? Un secondo? Una frazione?

 

***

 

– «Sènta, signo–» – macché. Non fece in tempo.

Un autobus lo schiacciò, con molta cura, proprio sullo sconsolato accento (tonico) di “signò”.

– «OhssSignòrebenedetto! OhggGesùmMaria!» – strillò Rosario accorso d’un subito – «Signore! Senta, signore!»

– «Eh, sì, signore di qua, signore di là…» – si rammaricò quello, con una vocina piccina piccina picciò, schiacciato qual mai prima – «Ora ti spiego…»

E infatti prese a spiegare con una intensa mimica facciale a Rosario, che per l’emozione non riusciva a frenare il tremito delle orecchie e quello delle mani che gli reggevano il capo, che aveva deciso in quel preciso istante di partire una buona volta verso il posto dove sarebbe accolto benissimo (roba di campi elisi pressappoco) indicandolo con una approssimazione di venticinque – trenta centimetri, e di volerlo fare mentre era ancora vivo, ché poi non si sa mai (e sai come vanno queste cose).

E ora?

Che fare? Che dire? La folla, da par suo, se n’era scivolata verso altre vite, altre corse, altri sbandamenti.

– «Signore..? aspetti un momento, un momento solo, ché ora viene l’autoambul–»

Però accorrevano i lagrimoni del nervoso e della paura impotente, altro che autoambulanze.

Come se non bastasse, il signore con la vocina di fanciulla era già partito – diremo – più o meno fischiettando come “il zappatore” il quale “riede alla sua parca mensa” quando va a finire che “seco pensa al dì del suo riposo.”.

(Anzi, c’è di più: era arrivato sano e salvo all’altro casello, dove poté constatare che sia il cancello d’ingresso sia il vialone successivo erano incontaminati di cartacce, cicche, sputazzate per terra, clamori superflui e monnezze varie).

Cose di uscire pazzi. Solo qualche minuto prima, la pompa, la cronaca, l’umanità raccolta attorno, la pietà, il pianto (eventualmente, ma non si può promettere nulla) di vergini.

Preghiere genuine l’avrebber accompagnato nel tragitto verso il Padrone di Casa, più di qualche lacrima spontanea avrebbe inumidito il manto dell’anima sua in decollo, e invece adesso nessuna delle personalità dotate di speciale capacità di scoramento si percosse la testa a suon di pugni per inneggiare insieme col rullo dei tamburi di sorella Morte.

(Non mi si venga a dire che non è ben strana, la vita, per favore! Non parliamone più).

 

(Zero 7 – Speed Dial No. 2)

 

[1] Morbide paste brioches fritte. sono ripieni di crema di ricotta arricchita con gocce di cioccolato. Venduti da ogni bar, pasticceria e forno della Sicilia, vengono consumati principalmente a colazione.

[2] Spingere.

[3] Adesso, ora come ora.

[4] Pulisciti la bocca = mettiti l’animo in pace.

[5] Mesmerismo s. m. – 1. Teoria elaborata dal medico tedesco Franz Anton Mesmer (1734-1815), il quale suppose la presenza, nei minerali e negli esseri viventi, di un “magnetismo vitale” che riteneva potesse essere usato, da individui che ne fossero eccezionalmente dotati, a fini terapeutici.

[6] Nonna.

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