LA FARMACOPEA DI SATANASSO – di Danilo Cannizzaro

Quasi tutti gli uomini muoiono

per le loro medicine,

e non per le loro malattie.

    (Molière)

Nessuna medicina è in grado

di curare ciò che la felicità

non riesce a curare.

    (Friedrich Wilhelm Nietzsche)

Mentre il Teatro alla Scala di Milano ha dato trionfalmente il via alla sua nuova stagione lirica ricevendo un cospicuo tributo d’acclamazione testimoniata da un quarto d’ora di applausi per un’opera “dimenticata” di Giuseppe Verdi, corre il mio pensiero a quanti, artisti originali, di tributi ne riscuotono ormai pochi – anche meno, diremo – a differenza dell’odioso oblio – in maggior misura.

(Il che, si sappia, è un vero peccato).

Vedi, a mo’ d’esempio, il silenzio entro cui è oggi ignominiosamente confinato l’ottimo Signor de la Soucapendant.

***

Dal nitrato passo all’ipo

coll’idrogeno nascente,

poi l’argenteo nitrato

debbo usar col sal veniente.

Il cloridico acidetto

sopra il tutto infine metto,

e lo verso saggiamente

l’ipernitro a liberar.

 

Ah, che delizia! Che gaudio e solluchero! Qual festante contentezza!

(Ohilì –  ohilà, rincitrullallero – scimunitrullallà!).

La composizione di tali versi illuminò i suoi occhi, che peggio di scariche elettriche in atmosfera rarefatta sfrigolavano d’inquietanti bagliori sinistri, riverberati fra i tramezzi del laboratorio – similmente a spettri opalescenti aggrappati alle pareti d’una caverna marina.

Philèmon de la Soucapendant – professione: gran speziale, erborista – nonché – trepidante, e fitopreparatore fervido – siffattamente esprimeva la voluttà sua nella produzione dell’acido iponitroso.

(Mica un bagatelle [1] – per tutte le serpentine!).

Fiale, boccette, alambicchi, cupi flaconi polverosi ed ampolle arcigne: taciturni spettatori costernati, frementi ebbene tinnivano; sinché l’ultima piroetta di danza segnerebbe la felice conclusione dell’artigianal toccasana, medicamento, balsamo che si fosse.

Esplicazion pronta s’avrà apprendendo… che tal esimio esteta s’era da tempo incapricciato di traslitterare in metrica le sue ricette, e tanto di dedizione e affetto spendeva e spandeva in prò delle sue ricercate premure dotte, che se à la volée dall’atmosfera galvanizzata – a pieni polmoni ne ingurgitava esaltato – non ti catturava una lirica acconcia, era capace di mandar a carte e quarantotto la preparazione del farmaco, dimolto persuaso ch’esso dannoso sarebbe per l’infermo.

Pur sempre t’afferrava la rima, l’estroso birbaccione!

***

Accadde un bel giorno che costui affidasse alle ruvide mani della signora Amandine – serva forastica d’un attempato visconte, malmesso in arnese – una panacea curativa custodita dentro di un flaconcino.

Forse che il farmacista si ritenne pago – da sacro fuoco d’arte tiranneggiato – solamente d’avvertire la fantesca che, prima di somministrare il distillato officinale, doveva agitarlo ben bene?

Oh non! bien sûr!

Aspirò tutta la grave degnità nebulizzata all’interno della aura che ammantava la sua persona, e con mano risoluta – non prima d’aver sputazzosamente appuntito i mustacchi solenni – vergò un foglietto, riportando l’avvertenza prescritta.

V’è da dubitarne? distese in rima bella.

La signora Amandine, quantunque possente, non era tuttavia donna appesantita dalla zavorra di belles-lettres o dal fardello di beaux-Arts, ovvero assillata da sapienze similari, per cui, intabaccatosi tra i zinnoni prosperosi il biglietto, difilato trottò dall’abate (suo lontano parente) e procurò di farselo leggere non poche volte, finché ebbe a depositar nella memoria, grazie all’ausilio mnemonico di maestose raspate nell’incavo dei poderosi quarti posteriori, un personalizzato residuo – evanescente, va da sé.

La sera istessa, fresca ancor dei recenti apprendimenti letterari, apparecchiatosi innanzi l’anziano visconte, si rimboccò le maniche insino all’omero, e come fuscello lo sollevò al fine di destinargli la cura stabilita.

A criterio di maggior sicurezza, valutò confacente ed opportuna una ripetizione della terapia.

(Meglio due, anzi).

Il vecchietto, però, sottoposto al rimedio, rifiutava imbaldanzirsi. Le fece scivolare addosso una guardata sospirosa, colma di pena, e struggimento.

– «Facciamo tre (Sanguinaccio di Giuda!) e non se ne parli appiù.» – deliberò Amandine la scrupolosa.

La misera carcassa del vecchietto, rinsecchita e sdutta, qual fronda agitata da un tardo di mente, fremé penosamente, scossa da interno terrore; le giunture sformate dai malanni, all’unisono, principiarono a cantare nell’idioma ritmico e timbrico delle nacchere ispaniche, mentre il gracile collo a stento reggeva – incerto l’equilibrio – il capo tremolante.

Lacrime – e quanto umide! – migraron per i cammini segnati lungo antiche rughe.

Egli più non era un uomo, ma un fungo marcito, preparato a ricever l’ultimo sbuffo di vento che per aria ne disperdesse le ceneri, prive di vita.

***

L’indomani mattina, di buon’ora, il farmacista sperimentò la convinzione che una qualche ispecie di balorda canaglia giacobina volesse buttargli giù la porta a calci, ma coltivava l’errore: trattavasi bensì dei pugni della serva erculea, inciprignita a causa della morte repentina del suo padrone.

– «E meno male Diograzia, che vossignoria tenete le scuole alte!» – irruente protestò la mammana, tracimata in bottega.

– «Disdetta perenne!» – gemé il luminare – «Che mai dite?»

– «Ca quale per “enne”! Ca semmai fa per “D”..! M’è schiattato in fronte ammé, il padrone mio!»

– «Ma… ma… ma…» – boccheggiò il pupillo della musa dei galenici.

(Non si rivela qui agevole, per un particolar riguardo alla tersa innocenza dei Lettori piccini, tradurre le turpi espressioni arrochite della donna, tra le quali svettavano – se si vuol misurar la cubatura – locuzioni del tipo: “Mais-mais une paire de couilles!”; “Le doc de mon cul!”)

– «Signora! Io non intendo punto…»

– «Ah! Non intende, l’homme de science! Fais pas l’innocent, tu sais de quoi je parle! Chi è che ha scritto questa roba qua?»

In effetti, in eccellente calligrafia, il foglietto recava:

 

 

Pria di darglielo conviene

che lo agiti ben bene.

– «E voi..?»

– «Porca di una […] se gli ho dato un […] di sgrullone al vecchio! Il […] frullava come una beccaccia: “cruà – cruà – cruà!” faceva. […] “Cia-cia-ciak!”, faceva. Sai che […] di spasso!»

***

Eh, sì. Io racconto, racconto, e intanto il caffè s’è sbommicato tutto sul fornello. Ora mia moglie mi fa il […].

 

 

[1] Il Bagatelle è un gioco di biglie, che divenne popolare in Francia durante il regno di Luigi XIV. Il gioco prese il nome dallo Château de Bagatelle, che era la piccola residenza (di qui il nome) del Duca Filippo, fratello minore del Re e grande appassionato di giochi e scommesse. Consisteva in un piano di gioco in legno con delle buche, sul quale i giocatori spingevano delle biglie per mezzo di un bastoncino simile ad una piccola stecca da biliardo. Il gioco consisteva nel mandare le biglie nelle buche evitando degli ostacoli, costituiti da numerosi chiodi piantati sulla tavola stessa.

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