NOI GIORNALISTI CHE ABBIAMO AVUTO TUTTI LO SGUARDO DI ANTONIO – di Marinella Rossi
C’ho un grumo, collocato fra stomaco e petto, e non si scioglie. Non ne parlo, da giorni, ma non si scioglie. È lo stesso di sempre, quando si sostanziano stupore dolore, amarezza tenerezza, impotenza – grumo da delirio di onnipotenza quando l’immaginario, il giusto, la perfetta utopia si scontrano con la reale minima potenza dell’essere, la mia soprattutto. Mi è successo con Giulio, per mesi e tuttora arrabbiata indignata e furiosa tanto da decretare un mio ridicolo e personale embargo contro l’Egitto per quello che qualcuno ha potuto fare a un ragazzo sulla strada della comprensione del mondo. Mi succede ora con Antonio, con quel sorriso che urla la felicità del fare e raccontare e mi riporta a me poco più che bambina e quando, ohibò, nel ricevere il primo stipendio vero, e ridissi ohibò, mi pagano per quello che mi affatica diverte e amo fare, e, non l’ho mai detto a nessuno, io avrei pagato loro per farlo (ma che non lo sappia il sindacato dei giornalisti né il consesso degli editori, eh). Antonio che corre su e giù in autobus da Trento all’Europa, e che fa della sua professione pagata niente o troppo poco un appassionato confronto col mondo, piacere nel restituirlo raccontandolo, il vivere per raccontarla direbbe Marquez, in un libro, un giornale, una radio. E lo immagino, Antonio, dopo un giorno di seduta plenaria a Strasburgo, a rintracciare sfumature e declinazioni in un’osteria francese con gli amici, rincorrendo interpretazioni opinioni battute ironie, pettegolezzi. Non staccare mai, restare centrati su fatti, scenari, restarne connessi. E cerco di immaginare il momento insensato, cronaca precisa quanto voluttuaria, di Antonio in piedi, fine giornata di lavoro, di fronte a un bistrot, in attesa di gente come lui, quel freddo pungente che sveglia, quel tornare a respirare ossigeno dopo una giornata al chiuso, e l’attimo in cui sempre lui, il suo cranio, incontra un proiettile sparato da un semplice coetaneo, sulla cui fronte da foto segnaletica noto, senza rabbia ma sconforto, il livido esibito di un’inesausta preghiera. Che guerra di Piero, ma uno dei due non è in guerra e non è armato. Antonio, una frazione di secondo, e la visuale cambia, da verticale a orizzontale, con quale sua coscienza, consapevolezza e stupore, chissà, e già trascinato nella visuale spacciata di incoscienza, speranza, sopravvivenza, resistenza, morte. A lui, giornalista che è ed è stato tutti noi, vorrei allungare una mano protettiva che l’impotenza del mondo non consente, e fare un – ehi, ciao Antonio, continua così, che questo bel mestiere non muore nel tuo sorriso consapevole e divertito nel farlo. Ma tu sì, sei morto, e il misero grumo del mio dolore egoistico non si è sciolto, neanche raccontandolo così a caso e a spanne, qui a voi.
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