IL LETTO E LA ROSA – di Enrico Nascimbeni; Danilo Cannizzaro

Il letto e la rosa

(Diario d’una navigazione a vista)

 

Se non fossi quella canaglia terribilmente spiritosa che invece sono, non mi verrebbe in mente, d’istinto, quello che avrei voglia di chiamare Tango della geriatria, nonostante qui c’è più di un marinaio giovane: ragazzotti più stupiti che amareggiati per le vicissitudini della navigazione che affrontiamo insieme, riuniti inopinatamente da un caso perfino più “spiritoso” e disinvolto di me.

Dico: marinai, navigazione, perché se una cosa ci accomuna tutti, è il desiderio dell’avvistamento, dopo tutto questo tempo, della terraferma.

Nessuno, del resto, coltiva in cuor suo – o voglio semplicemente raccontarmela, così – un’impressione diversa da quella di poterla afferrare da un momento all’altro, dato che tutti la richiediamo, la avvistiamo, sappiamo che tra un attimo la toccheremo.

Ho perso un po’ il conto dei giorni, e dubito che gli stessi ufficiali in comando abbiano un’idea più esatta, ma se volessi immatricolare una data precisa dell’inizio potrei chiederla agli schiccheracarte che si occupano dei fogli d’imbarco individuali.

A questo punto non mi importa nemmeno tanto, però: rimane una notazione secondaria, rispetto alle diversificate impressioni di questa traversata.

Sono più povero di peso corporeo, indubbiamente. Tuttavia il conto è lautamente pareggiato da quello degli avvenimenti che riporto in questo diario… brioso e indisponente – se proviamo a capirci.

Adesso so anche perché m’è caduto indisponente: e vi racconto dunque il fatto di due sciagurati, radunati accidentalmente nella stessa cabina, abbigliati con divise differenti.

***

Una pioggia mista a nevischio batteva il fianco di questa singolare motonave, non privandoci del rintocco di fulmini stizzosi (senza i quali quelle due bestemmie non avrebbero la precisa efficacia di allentare la tensione causata talvolta dal mare ingrossato); uno dei due, quello con la divisa da infermiere, si abbatté nel corridoio dove sostavo tutto bello agghindato dai fregi di degente ricoverato, e chiamò a gran voce:

– «Signor Poli!»

Dovetti contrariarlo, dato che non rispondevo personalmente al suo categorico appello. Mi venne sotto il naso, disturbato evidentemente dalla mia reticenza dissenziente.

– «Signor Poli!» – ripeté irritato. Eppure non volevo avversarlo, sebbene riluttante ad una falsa dichiarazione sulla mia legittima identità di Nascimbeni Enrico (navigatore più per necessità che per svago) ma certamente questo bastò ad aizzarlo ad afferrarmi con una brusca zampata il polso dove il braccialetto sanitario reca, disinteressatamente, il mio nome, cognome, matricola sanitaria.

In effetti “il Signor Poli”, lì, non c’è stampato. Giuro.

Non sono più, per questo, quella accattivante canaglia che prima dicevo? Bah, non credo.

Credo piuttosto che, anche se per un attimo, lungo, scoraggiante, ho avuto la sensazione orribile che invece del nome mio o di quello del Poli indagato, lo stampiglio sul braccialetto individuasse: “Signor Nulla (nome) Infinito (cognome)”.

O forse soltanto un numero.

Uno dei quei tanti numeri che affollano un lager.

Nazista.

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